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Le prove ontologiche di Tommaso sono ancora valide

Creato il 06 ottobre 2013 da Uccronline

Tommaso d'Aquino 
 
di Francesco Santoni*
fisico e ricercatore

 
da Quaestiones quodlibetales, 05/09/13
 

Tempo fa, stimolato da una discussione con un amico filosofo, buttai giù una serie di riflessioni sul principio di causa e sul valore delle cinque vie tomiste per dimostrare l’esistenza di Dio. Il mio amico è un cattolico di ferma fede, non è per nulla impressionato dalle dimostrazioni di Tommaso, non ne capisce la necessità né il motivo per cui invece io le ritenga tanto importanti.

Io che sono teista solo grazie alla metafisica di Tommaso, ma agnostico in fatto di Rivelazione, cercavo di fargli capire il valore di queste dimostrazioni, e di come esse siano validissime e restino salde anche di fronte a tutti i tentativi di critica che gli sono stati mossi contro da diverse scuole filosofiche. Convinto che si tratti di riflessioni valide, e magari utili per qualcuno, le riporto qui, come dicevo, senza alcuna pretesa di sistematicità e completezza (si noterà forse che la discussione procederà un po’ a salti, infatti il contesto era una lunga ed articolata discussione avuta con il mio amico, e non posso stare qui, e sarebbe forse anche inutile e noioso, a riportare tutti i dettagli, me ne scuso).

 

1) Le cinque vie tomiste poggiano sul realismo e sul principio di causa. Entrambi questi presupposti non appartengono a Kant, alle cui spalle sta invece l’idealismo (secondo l’accezione gilsoniana) di Cartesio, e l’empirismo scettico di Hume. Già questo è di per sé sufficiente a sostenere che le prove tomiste sfuggano al maglio della Critica: Kant procede con una deduzione trascendentale delle condizioni di possibilità della conoscenza, mentre si potrebbe dire che Tommaso, dato il presupposto realista e riformulando (forse qui sono troppo ardito) il suo pensiero in termini kantiani, proceda ad una deduzione trascendentale delle condizioni di possibilità dell’essere dell’ente; tale deduzione è compiuta seguendo le implicazioni del principio di causa. Il risultato principale di questa ricerca è la scoperta della partecipazione dell’ente all’atto d’essere, l’ente che riceve l’essere per partecipazione dall’Essere Per Sé Sussistente che è Dio, nel quale essenza ed essere coincidono.

 

2) I principi più generali, quali l’atto e la potenza, non sono oggetto di dimostrazione, ma possono essere colti solo per analogia tramite esempi, come insegna Aristotele nella Metafisica. Che cos’è l’atto? Se io rispondessi la fattualità, la realizzazione, la concretizzazione di una potenza, non avrei risposto, perché poi dovrei definire tutti questi termini, i quali però non significano altro che l’atto. E che cos’è la potenza? È ciò che può ricevere un determinato atto… ma anche questa risposta non soddisfa. Come cogliere allora i concetti di atto e potenza? Con un esempio dal quale il nostro intelletto è in grado di astrarre un concetto: il fuoco è caldo in atto, e l’acqua è calda in potenza, e può ricevere l’atto di esser calda dal fuoco. Oppure si possono fare altri esempi come il seme e la pianta, il bambino ed il vecchio ecc. Dall’analogia tra tutti questi esempi si coglie il concetto di potenza ed atto. Questa è la cosiddetta analogia di proporzionalità secondo la classica distinzione del cardinal Gaetano, che è l’unica vera analogia secondo Aristotele. Si chiama di proporzionalità perché non implica una somiglianza di perfezioni (cioè una proporzione): l’atto del fuoco non è l’atto della pianta; ma indica una somiglianza di rapporti tra perfezioni diverse (quindi una proporzionalità): il fuoco sta all’acqua (riscaldandola) come la luce del sole sta all’aria (illuminandola). Da questa proporzionalità si coglie il concetto di atto, e così per tutti i principi più generali. Ovviamente più esempi facciamo e più avremo chiaro il concetto che cogliamo per analogia. In questo consiste l’esperienza. Il razionalismo moderno rifiuta l’analogia, ma finisce così per sprofondare nello scetticismo e nell’agnosticismo, perché chiaramente non ha altro modo di cogliere i principi, che di certo non possono essere oggetto di dimostrazione, perché la dimostrazione stessa richiede a sua volta dei principi. E questa è anche la vera essenza del realismo aristotelico-tomista, che rifiuta di dedurre il reale dai principi, ma piuttosto è la continua ricerca e scoperta dell’implicazione dei principi nel reale stesso.

 

3) Che cos’è l’atto d’essere? Chiaramente anche qui non è possibile una definizione, e dobbiamo ancora procedere per analogia. Diciamo infatti che l’atto d’essere è l’atto di tutti gli atti, perfezione di tutte le perfezioni, forma di tutte le forme, perché è per l’essere che ogni essenza esiste in atto. Mettendo ogni perfezione, ogni essenza, ogni modo di essere l’uno accanto all’altro come una sinossi, dice Cornelio Fabro, ci facciamo un concetto dell’atto d’essere come perfezione suprema che è sintesi, plesso di tutte le perfezioni. Ciò che tutti chiamano Dio (nota espressione di Tommaso), l’assoluto, l’incondizionato, è quindi Atto Puro, ciò che è primo nell’ordine delle cause moventi, primo nell’ordine efficiente, primo nell’ordine finale, primo nell’ordine delle perfezioni ecc. Ecco perché per arrivare ad una qualche conoscenza di Dio bisogna percorrere tutte le vie di Tommaso, e magari trovarne anche di altre mai percorse, perché non esisterà mai una conoscenza di Dio che possa dirsi completa (eccezion fatta per la conoscenza che Dio ha di se stesso). Ognuna delle cinque vie ci dimostra la necessità di dover ammettere un primo principio nei diversi ordini, ma è poi nell’analisi della natura divina svolta nei successivi articoli della Somma che viene mostrato, sfruttando gli argomenti di ogni via, come esista un solo Primo Principio e come esso debba necessariamente essere Atto Puro (ed inoltre c’è da tener conto che la Somma Teologica è una sintesi, e che per una trattazione più completa e dettagliata bisogna rivolgersi alla Somma Contro i Gentili e alle Questioni Disputate sulla Potenza di Dio e sulla Verità; non si può ridurre il discorso di Tommaso al solo e ben noto Respondeo che contiene le cinque vie).

 

4) Le cinque vie conducono quindi a Dio partendo dalla contemplazione del reale ed applicando sistematicamente il principio di causa. Ma il realismo ed il principio di causa stanno a fondamento anche di qualsiasi discorso scientifico (nell’accezione moderna del termine), e pertanto mi pare che le prove di Tommaso debbano godere della stessa fiducia che si ha nelle scienze. Del resto, da aristotelico, non mi piace parlare di scienze e di metafisica, ma piuttosto di scienza fisica e scienza metafisica (sì lo so, Aristotele non usa il termine metafisica, ma lasciamo correre ora) dove in entrambi i casi, secondo l’accezione classica, per scienza si intende conoscenza certa per cause. Le scienze si distinguono primariamente in ragione dell’oggetto studiato, e chiaramente Dio non entra nel discorso scientifico (qui torno all’accezione moderna), e a dirla tutta non è nemmeno l’oggetto proprio della metafisica, che è invece l’essere in quanto essere. Dio è solo secondariamente oggetto della metafisica, in quanto ente più eminente tra tutti gli enti ed a fondamento di essi, ecco perché Aristotele dice che la metafisica, o filosofia prima, potrebbe esser detta anche teologia. Ma con l’affermazione del pensiero cristiano, la teologia è diventata una scienza a sé, della quale ora Dio costituisce l’oggetto proprio, ed i principi primi sono dati dalla Rivelazione.

Si potrebbe allora porre il problema di quale scienza sia la principale, la metafisica o la teologia. Il ruolo pare certamente spettare alla teologia, perché essa si occupa dell’oggetto più importante, Dio, e da Egli è direttamente rivelata, quindi è massimamente certa. Tuttavia Dio per mostrarsi deve rivolgersi a noi parlando la nostra lingua, dicendo cose che noi possiamo capire; ma allora la Rivelazione presuppone già un discorso metafisico più o meno compiuto (forse non è un caso che la Rivelazione non scenda in blocco ma sia “distribuita” nel corso della storia): se Dio dice “Io sono Colui che sono”, si presuppone che possiamo intenderlo in qualche modo. Un certo livello di sapere metafisico è quindi necessario alla ricezione della teologia, ed è quindi giusto riproporre il tradizionale appellativo della metafisica come ancilla theologiae; ma tale rapporto di signoria e servitù sembra quasi rovesciarsi dialetticamente, dal momento che sembra essere il sapere metafisico a dettare le regole alla teologia e renderla possibile come scienza. Tale contraddizione mi pare comunque si risolva in maniera semplice dicendo che la teologia è prima in quanto scienza assolutamente certa dell’oggetto più eminente, mentre la metafisica è prima solo quoad nos (rispetto a noi), quanto al progredire della nostra conoscenza, ed in effetti è la teologia stessa ad insegnare che nella visione beatifica sarà possibile conoscere Dio come Egli è, quindi senza la mediazione della metafisica, che è scienza umana e non divina.

 

5) Comprese tutte queste distinzioni, si capisce allora come sia sbagliato far entrare Dio all’interno del discorso scientifico, contrariamente a quanto pretendono di fare i creazionisti all’americana (o magari pure qualche teologo cattolico ingenuo). Ma al tempo stesso si deve capire che Dio sta a fondamento del discorso scientifico stesso; sta a fondamento del fatto che ci sia qualcosa su cui discutere, che questo qualcosa sia intelligibile, che noi siamo in grado di farlo, che desideriamo farlo, che desideriamo conoscere. A fondamento di tutto c’è il Logos e noi vogliamo e possiamo conoscerlo.

Inoltre si sosteneva (mi riferisco al mio amico) che le vie di Tommaso non sarebbero sufficienti, altrimenti non ci sarebbero atei. Però, allora, mi vedo costretto a portare la mia testimonianza personale, perché senza Tommaso io mi crogiolerei nell’agnosticimo, ostentando indifferenza ed atarassia come un Eugenio Scalfari qualsiasi. Se io non sono caduto nel nichilismo è grazie a Tommaso. Certo, la metafisica non ci rivela il Dio della fede cristiana, bensì il Dio dei filosofi, ne sono perfettamente consapevole, e Tommaso stesso lo dice chiaramente; ma ci si tiene comunque ben lontani dall’ateismo.

 

6) Qualche parola sul principio di causa. La causalità è fondata sulla partecipazione, e di quest’ultima credo non possa proporsi definizione più chiara di quella data da Tommaso stesso: Est autem participare quasi partem capere, et ideo quando aliquid particulariter recipit id quod ad alterum pertinet universaliter dicitur participare illud, sicut homo dicitur participare animal, quia non habet rationem animalis secundum totam communitatem; et eadem ratione Socrates participat hominem. Secondo l’esegesi del Fabro si devono distinguere due tipi di partecipazione, la partecipazione trascendentale, ossia la partecipazione dell’ente all’essere, e la partecipazione predicamentale, che è orizzontale, resta cioè sul piano dell’ente detto secondo le dieci categorie aristoteliche (o predicamenti appunto). La fondazione delle cause seconde richiede ovviamente entrambi i tipi di partecipazione. Riprendendo la lezione aristotelica si ricordi che l’atto del mobile e l’atto del motore sono un unico e medesimo atto, ovvero causa ed effetto partecipano di un’unica e medesima forma; è pertanto la partecipazione che fonda il nesso causale: quando una data forma è ricevuta per partecipazione in due enti distinti, allora o l’uno è causa dell’altro, oppure entrambi sono causati da un terzo agente. La causa formale-finale è sempre presente, infatti Tommaso definisce il fine come causa delle cause (causa causarum), perché ogni causa efficiente agisce secondo un ordine specifico (omne agens agit propter finem), seconda una certa direzionalità, ovvero secondo una forma-fine (li metto insieme perché tali sono negli agenti non intelligenti) che viene ricevuta per partecipazione dall’effetto. È perciò nella partecipazione che si riconosce il nesso causale, e si è così capaci di giustificare metafisicamente la nozione di causalità espressa dalle proposizioni controfattuali: il tale ente non si dà senza che si dia il tale altro ente. Duns Scoto, analitico ante litteram, nel Trattato sul Primo Principio, esprime tutto ciò sotto forma di teorema dimostrando una dopo l’altra le seguenti proposizioni: quod non est finitum (ovvero ordinato ad un fine) non est effectum,quod non est effectum non est finitum. Il “povero” Hume, erede di una filosofia che aveva ormai disconosciuto le cause formali e finali, si ritrovò con la sola causa efficiente, e cercò di trovarne il fondamento, ma ovviamente non poteva. Il principio di causalità viene abbandonato e con esso tutta la scienza: Hume finisce nello scetticismo

Non c’è bisogno di andare nei sistemi complessi per trovare le cause formali e finali. Esse sono sempre presenti affinché la stessa causa efficiente sia fondata. Basti pensare ad esempio come il principio di minima azione, così palesemente teleonomico, sia basilare praticamente per tutta la fisica oggi conosciuta.

 

7) Concludo dicendo che tutto quanto ho scritto fin qui non è chiaramente farina del mio sacco, ma semplice ripetizione di ciò che ho appreso leggendo tomisti autorevoli come Maritain o Fabro. Ora io non nego che ci siano state e ci siano ancora semplificazioni e banalizzazioni del pensiero di Tommaso, ma questo non dimostra nulla contro Tommaso stesso. Molti, troppi tomisti hanno purtroppo reso un pessimo servizio al maestro, trasformando il suo luminoso pensiero in una serie di vuote formulette, incapaci di calarle nel reale e nella vita. Per esperienza personale se si vuole studiare Tommaso bisogna fare moltissima attenzione ai manuali, perché in genere lo presentano in maniera superficiale e fuorviante; è piuttosto preferibile leggere direttamente Tommaso guidati da tomisti di indubitabile preparazione e profondità di pensiero, come appunto il padre Fabro.

 

8) Una stoccata alla modernità è d’obbligo. Tutto questo chiaramente è metafisica, non scienza (nell’accezione moderna del termine). Ma è la metafisica a fornire i fondamenti teoretici sui quali è possibile edificare la scienza, e pensare di poter usare una teoria scientifica o delle evidenze empiriche (come pretendono certi moderni “pensatori”) per confutare delle tesi puramente metafisiche, quali sono quelle che ho esposto, è un’assurdità a sentire la quale Aristotele si rivolterebbe nella tomba, se mai le sue ossa siano ancora da qualche parte. Come diceva Koyré, senza la metafisica la scienza è morta. Buona parte dei filosofi moderni pensa che la metafisica sia inutile, se non addirittura priva di senso. Io sarò immodesto, ma penso che questi signori non abbiano capito nulla, e che un Aristotele o un Tommaso potrebbero papparseli in un boccone, ritornassero all’improvviso a vivere.

Io sono un fisico, e francamente delle speculazioni del circolo di Vienna ne faccio tranquillamente a meno. È grazie a Tommaso se posso comprendere i fondamenti del lavoro che faccio (ed ho la convinzione che gli scienziati siano per lo più degli aristotelici spontanei che non sanno di esserlo).


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