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Le sfide economiche e sociali del Kurdistan iracheno

Creato il 08 gennaio 2016 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Lorenzo Marinone

Dopo più di un decennio di relativa stabilità e di forte crescita economica rispetto al resto del territorio iracheno, negli ultimi mesi il Governo Regionale Kurdo (KRG) sta attraversando un periodo di profonda crisi. Alla necessità di far fronte al massiccio afflusso di profughi siriani in fuga dalla guerra civile e, successivamente, di sfollati interni provenienti dalle principali città irachene, dalla metà del 2014 si è sovrapposta la minaccia militare diretta dello Stato Islamico (IS). Tale situazione emergenziale ha indotto i vertici del KRG, protagonisti storici della lotta dei curdi iracheni per l’autonomia e riconducibili alle tribù Barzani e Talabani, ad aumentare il tentacolare controllo esercitato sulle istituzioni e sulla società curde, abbinandolo a un ulteriore tentativo di smarcamento dalle autorità centrali irachene, messe a durissima prova dalla lotta contro l’IS, tramite l’occupazione e il controllo di Kirkuk e dei suoi importanti giacimenti petroliferi. L’altalenante rapporto con Baghdad e l’irrisolto contenzioso per il trasferimento di fondi statali, necessari per tenere in piedi l’opulenta macchina burocratico-amministrativa del KRG, hanno però sortito l’effetto di esasperare vasti settori della popolazione, che chiedono con crescente insistenza un ricambio politico-istituzionale.

Le manifestazioni sono sfociate nella violenza. Infatti, il 10 ottobre scorso un gruppo di manifestanti ha assaltato e dato fuoco ad alcune sedi del Partito Democratico del Kurdistan (KDP), la formazione che sostiene il Presidente Masud Barzani, in diverse città del Kurdistan meridionale, oltre agli uffici del network Rudaw a Sulaimaniyah, considerato vicino al KDP. Negli scontri con le forze di sicurezza sono morte almeno 5 persone [1]. L’escalation fa seguito alla convergenza e saldatura di due fattori in origine distinti: uno prettamente istituzionale e nato già ad agosto a causa del rinvio delle elezioni e dell’estensione per altri due anni del mandato presidenziale di Barzani; l’altro legato al mancato pagamento dei salari degli statali, che racchiude in sé un più generico malcontento per il rallentamento dell’economia.

Per quanto riguarda il primo punto, le recenti proteste hanno definitivamente fatto emergere le profonde divisioni fra i principali partiti che governano il Kurdistan iracheno. Infatti, la richiesta di formazioni come l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) guidata da Jalal Talabani e del Movimento per il Cambiamento (Gorran), entrambe al governo insieme al KDP dal 2013, riguarda l’abbandono del presidenzialismo in favore di un maggiore ruolo del Parlamento. Tale richiesta mira a contenere lo strapotere di Barzani, assurto a vero e proprio dominus incontrastato della vita pubblica nella regione grazie ad una sapiente politica di alleanze locali, portata avanti con l’elargizione di cariche pubbliche, a una gestione familistica della cosa pubblica [2] e al rapporto intessuto negli anni con la Turchia e gli Stati Uniti che ha importanti risvolti in ambito economico e militare.

L’ascesa di Barzani ha scosso il fragile equilibrio nella divisione dei poteri sul quale si poggia l’alleanza con il PUK [3]. Se da un lato l’indebolimento della leadership di Talabani sul PUK e il successivo stallo politico tra i vertici del partito hanno diminuito il suo peso rispetto al KDP, dando così la possibilità a Barzani di estendere incontrastato la propria rete di potere, dall’altro lato ciò ha permesso l’emergere di una nuova formazione come Gorran, meno propensa al dialogo e forte di una crescente presa sull’elettorato nelle stesse zone di influenza del PUK. La reazione di Barzani alle proteste di ottobre segnala quanto Gorran venga percepito come una minaccia: infatti, quattro Ministri del partito sono stati espulsi dal governo ed è stato impedito l’accesso alla capitale Erbil allo speaker del Parlamento Yusuf Mohamed.

In mancanza di una ripresa del dialogo fra le parti e del raggiungimento di un accordo sull’eventuale nuovo assetto istituzionale del Kurdistan iracheno, il rischio maggiore è che si apra una nuova stagione di instabilità dove lo scontro frontale tra i partiti, anche traslato sul piano militare, sia assoluto protagonista. In tal senso, poiché l’attuale posizione di forza del KDP non spinge Barzani alla ricerca di un compromesso al ribasso, sarà centrale l’atteggiamento del PUK. Infatti, nonostante il minor peso politico di cui gode rispetto a qualche anno fa, il partito di Talabani conserva ancora una forte base elettorale nel sud della regione e, soprattutto, può controllare ampi settori dei servizi di sicurezza, dell’intelligence e dei combattenti peshmerga [4]. La scelta cui si trova oggi di fronte il PUK è se cercare un accordo con Gorran, prevenendo una possibile emorragia di voti in favore di quest’ultimo, che sta accrescendo la propria base elettorale nelle stesse province in cui è radicato storicamente il PUK, oppure se tornare ad appoggiare apertamente il KDP per mettere all’angolo il principale competitore.

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Su tale scelta, e più in generale sull’atteggiamento che adotteranno PUK e KDP, incidono anche altri fattori, principalmente di natura economica, che riguardano il rapporto tra KRG e autorità centrali di Baghdad. La minaccia agitata da Barzani (e più volte messa in atto) di commercializzare il petrolio estratto dai giacimenti presenti nel territorio del Kurdistan iracheno senza coinvolgere Baghdad, si continua a rivelare un’arma a doppio taglio. Infatti, tale decisione scatena la reazione di Baghdad, che blocca il trasferimento di fondi verso la regione autonoma e ne mette fortemente in crisi la tenuta economica. Benché lo sfruttamento del greggio di Kirkuk abbia più che raddoppiato i barili estratti nel Kurdistan iracheno (passati da 250.000 a 550.000 al giorno), tale quantitativo resta tuttavia insufficiente per coprire le esigenze di bilancio [5]. Nonostante le parti fossero giunte ad un accordo verso la fine del 2014, Barzani ha deciso di tornare a vendere in autonomia il petrolio attraverso la Turchia nel giugno del 2015, causando l’immediata sospensione della devoluzione del 17% del budget di Baghdad verso il KRG. Se la mossa risulta chiaramente insostenibile alle condizioni economiche attuali, conserva tuttavia un forte valore di avvertimento verso le autorità centrali, soprattutto alla luce delle possibilità schiuse dal progressivo sollevamento delle sanzioni all’Iran e dalle eventuali ricadute economiche per il Kurdistan iracheno.

Ad ogni modo, desta particolare preoccupazione la pressoché inesistente differenziazione dell’economia della regione, che limita fortemente l’azione del governo legandola a doppio filo all’andamento delle esportazioni petrolifere. Infatti, il quadro economico già compromesso dal rallentamento dell’anno precedente, dal balzo del debito pubblico (passato dallo zero al 20% del PIL in pochi mesi) e dalla crescente sfiducia degli investitori internazionali nel KRG a causa della sempre più evidente instabilità politica e debolezza delle finanze pubbliche, è di recente culminato nell’insolvenza conclamata degli stipendi dei funzionari pubblici, fatto che ha spinto buona parte della popolazione in piazza. Infatti, oltre un quinto della popolazione dipende interamente da tale fonte di reddito, che assorbe ben il 70% della spesa del KRG. La crescita esponenziale del settore pubblico negli ultimi anni, fino a raggiungere proporzioni elefantiache ed economicamente insostenibili anche nel breve periodo, dipende da una distribuzione clientelare delle cariche da parte di KDP e PUK, che in tal modo si garantiscono un bacino di voti certo ed ampliabile.

In tal senso, una risoluzione della questione è prioritaria tanto per il KDP quanto per il PUK, benché con urgenze diverse. Infatti, alla distribuzione dei privilegi, negli ultimi anni Barzani ha abbinato una gestione familistica delle principali cariche pubbliche, che gli garantisce una quasi assoluta discrezionalità di scelta nella ripartizione dei proventi della vendita di petrolio, la principale voce nel bilancio del KRG. Tuttavia, potrebbero altresì acuirsi gli attriti esistenti all’interno dei ranghi del KDP tra alcuni esponenti del clan Barzani, e segnatamente tra il Cancelliere del Consiglio di Sicurezza Masrur e il Primo Ministro Nechervan. Infatti, una protratta stagione di instabilità politica e di crisi economica andrebbe ad intaccare il capitale politico a disposizione di entrambi, nonché l’ampiezza dei margini di manovra all’interno del partito. 

* Lorenzo Marinone è Analista di Relazioni Internazionali e OPI Contributor

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[1] Three killed in violent unrest in Iraq’s Kurdistan region, Reuters, 10 ottobre 2015.

[2] La presenza di esponenti del clan Barzani ai vertici di potere del KRG si è consolidata col tempo. In merito vanno citati almeno Masrur Barzani, che controlla intelligence e apparati di sicurezza, e l’attuale Primo Ministro Nechervan Barzani, rispettivamente figlio e nipote del Presidente Masud Barzani.

[3] PUK e KDP sono riusciti a governare insieme per un decennio grazie a un patto fra i rispettivi leader: nel 2007 Barzani sostenne Talabani nella corsa alla carica di Presidente dell’Iraq, in cambio di maggiore autonomia di controllo sull’economia (in particolare sul cruciale settore del petrolio) e la gestione della sicurezza nel Kurdistan iracheno.

[4] Emblematico in tal senso è lo stato in cui versa attualmente l’agenzia governativa Parastin u Zanyari (Protezione e Informazione), ovvero l’intelligence del Kurdistan iracheno. Nata dall’unione delle agenzie facenti capo al KDP e al PUK, in realtà la sua azione non è univoca bensì largamente influenzata dai rispettivi partiti di riferimento. Identico discorso vale per le milizie peshmerga, rispetto alle quali l’istituzione di un unico Ministero dedicato non ha portato, di fatto, a una catena di comando unificata. Si veda in proposito il Report dell’International Crisis Group Arming Iraq’s Kurds: Fighting IS, Inviting Conflict, 12 maggio 2015, in particolare le pagg. 8-11.

[5] Benché il Ministero delle Risorse Naturali abbia pianificato di incrementare l’estrazione di idrocarburi per raggiungere 1 milione di barili al giorno entro la fine del 2015 e 2 milioni entro il 2019, cifre che garantirebbero ampia autonomia da Baghdad, l’attuale periodo di crisi del KRG ha rallentato considerevolmente gli investimenti delle compagnie estere, che temono l’eventuale insolvenza delle autorità curde. Le prospettive di ripresa sono condizionate in negativo dal basso prezzo del petrolio. Inoltre, l’instabilità politica aggrava ulteriormente l’accesso a prestiti internazionali, disponibili solo a tassi molto elevati. Si veda Kurdistan courts investors ahead of maiden bond sale, in “Financial Times”, 22 giugno 2015.

Photo credits: AP

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