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LE VITE DI FRANCA | Franca Valeri, Bugiarda no, reticente

Creato il 06 ottobre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

franca_valeri_signorina_snob (2)di Laura Vicenzi

 

Ho sempre avuto una grande facoltà di far ridere.

Anche da piccola al tavolo da pranzo ero istintivamente pungente.

Negli anni ho saputo sfruttare il mio senso dell’ironia.

 E preferisco essere un’umorista piuttosto che una piagnona.

Franca Valeri

 

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L’autobiografia di Franca Valeri, Bugiarda no, reticente (edita da Einaudi nel 2010 e tutt’ora in ristampa) inizia significativamente così: «Perché non scrive della sua vita? …Perché la conosco. Ma gli altri no, solo giornalisticamente. Allora dovrei farla diventare addirittura una storia. Francamente trovare idee per la mia vita mi sembrerebbe troppo, avendola anche vissuta». Quel “francamente” è certo calibrato, scelto da lei, la Valéry (il cognome d’arte di Franca Maria Norsa è un omaggio al grande letterato francese). Il titolo riporta una frase pronunciata dalla madre chiamata a descrivere la sua bambina: una frase storica, di quelle da lessico famigliare, rimasta impressa a caratteri indelebili nella memoria di Franca. Nel libro Franca Valeri racconta il suo amore per mariti, amici, cani (l’ordine dell’eccellenza senza tante distinzioni di genere o specie); la predilezione che ha sempre avuto per vestiti e oggetti eleganti, che spesso descrive in forma balzacchiana, dotandoli di vita propria; parla dell’attaccamento per le città in cui ha vissuto, Milano e Roma, ma soprattutto dichiara la sua passione senza fine per il teatro e per la musica. L’anagrafe dichiara che la signora Valeri ha valicato i cancelli della quarta età, ma la cronaca afferma che l’autrice-attrice pratica ancora con passione e con successo i teatri italiani (attualmente è impegnata in tournée con lo spettacolo “Il cambio dei cavalli”, che segue “Parliamone”, “La bruttina stagionata”, tratto dal famoso libro di Carmen Covito, “Non tutto è risolto”; grande successo ha avuto anche con “Les bonnes” di Jean Genet, che ha portato in scena insieme ad Anna Maria Guarnieri nel 2009. Genet? «L’ho conosciuto, sì. Siamo andati a cena con lui e il suo ragazzo», scrive nel libro col consueto piglio da cantastorie).

Franca Valeri è una donna che ha attraversato il Novecento alternando la maschera della reticenza a quella teatrale, salottiera, con il tatticismo da contraerea che sfoderano per necessità gli intelligenti-sensibili: «Impossibile non pensare a Dorothy Parker» scrive nella premessa alla raccolta Tragedie da ridere. Dalla signorina snob alla vedova Socrate, (La Tartaruga Edizioni, 2003) la curatrice Patrizia Zappa Mulas: «Franca Valeri non è la prima scrittrice che abbia recitato. Ci sono numerosi precedenti – Colette è il più luminoso – a dimostrare che quello dell’attore è anche un mestiere letterario. Sì, deve essere stata la doppia prospettiva a garantire a Franca Valeri il formidabile benessere mentale che mancava a Dorothy Parker». Leggendo l’autobiografia, si scopre che per la sua artefice i luoghi spesso contano più delle persone e che guarda sempre stupita, con curiosità, gli oggetti che passano immutabili attraverso la nostra vita. Nel primo capitolo, conclude anche che, tra le persone che per qualche tratto ci accompagnano, è nella natura delle cose che quelle di famiglia occupino uno spazio privilegiato: «… nel cerchio che chiude la tua vita, i genitori sono stati i più significativi». La mamma aveva “ordinato” un altro maschio, Cesare, dopo l’arrivo di Giulio il figlio adorato, e aveva invece portato a casa una bambina a metà prezzo, una Francesca con lo sconto: la Franca. Cecilia era la madre milanese che la faceva studiare pianoforte, che organizzava le lezioni di francese, che mandava i figli alla scuola rigorosamente pubblica, che li portava alla Scala; era la donna che preparava gli “abiti da società” per Gigi (in famiglia chiamavano affettuosamente così il papà, un uomo raffinato, esterofilo, antifascista e goloso, aggettivi che la figlia riferisce a lui ma che indubbiamente inquadrano bene anche lei), e una moglie che non ha mai cessato di dare ragione al marito anche di fronte a ogni istintiva convinzione, almeno di fronte ai bambini. Cecilia ha trasmesso alla figlia anche il suo convincimento che dagli uomini non si può mai sapere tutto, un imprinting difficile da sconfessare. Nelle pagine dedicate agli amori, Franca Valeri dichiara che ha avuto «poche storie, due – ma lunghe: una dieci e una trent’anni –  con due traditori».

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Da qualche parte, nelle biografie pubbliche, l’attribuzione dei nomi degli interessati (l’attore e regista Vittorio Caprioli e il musicista romano Maurizio Rinaldi) è invertita, anche per la durata del noto sodalizio artistico-teatrale di Franca Valeri con Caprioli, ma il grande amore, quello durato trent’anni, fu “quell’altro” – è dichiarato dalla Valeri-scrittrice nell’autobiografia e anche nel capitolo-intervista pieno di carezze mimate dedicatole da Aldo Busi in Sentire le donne (nelle edizioni Bompiani, e in quella riscritta, pubblicata quest’anno dall’editoriale Il Fatto). Nel romanzo rosa dalle ovvie sfumature grigie legittimato da Franca ci sono un giovane musicista e la melomane elegante – e tante altre donne attorno, sopra, sotto, davanti, dietro. Una storia durata così a lungo non poteva certo finire in tragedia, se non per la morte naturale del suo protagonista: non per una che ha fatto della comicità e dell’ironia la sua cifra stilistica.

“Pronto mammà, che la camomilla è un barbiturico?” direbbe qui la Sora Cecioni, uno dei tre personaggi creati da Franca Valeri, con la Signorina Snob e la Cesira, che hanno spopolato in teatro, al cinema, e negli sketch televisivi.

Sono dei tipi umani ben definiti, che rappresentano una straordinaria invenzione letteraria e che hanno raccontato con voce femminile, e un riso amaro, fatti e misfatti della società italiana del dopoguerra e del boom economico. La Signorina Snob è il primo personaggio che è entrato nella sua carriera vestito di parole scritte. «Lo snobismo è un atteggiamento troppo importante e troppo antico della società per essere preso alla leggera», spiega Valeri, stingendo idealmente la mano a studiosi ferrati sull’argomento come Jasper Griffin, che nel suo bouquet che raccoglie ciò che di memorabile sullo snobismo fu scritto (Snob, Adelphi, 1993), esordisce così: «Lo snobismo suscita un’eco in ogni cuore. La venerazione più o meno spregevole o grottesca che gli altri provano per tutto ciò che ritengono superiore, sul piano sociale, intellettuale e persino morale, è da sempre uno degli zimbelli prediletti dall’umanità: ma in qualche circostanza si è risolta in tragedia». Si tratta in fondo di

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un atteggiamento salvifico, che nel personaggio creato da Franca Valeri, la Signorina Snob, anche declinata nella cinica Fanny di Le Catacombe, nega a priori i fallimenti della signora accasata – perché loro due possono sempre dire al primo attore sul palco domestico, disarmandolo: “Nani, se mi hai chiamato, ero fuori casa”, lo snobismo, o la spavalderia, tutto a fare da contraltare agli effetti drammatici di quel se. La trinità creata dalla Valeri, con i suoi precetti di fede, ha fornito una sintesi di ciò che di tragico e di ridicolo è accaduto nei decenni che seguirono la seconda guerra mondiale alle donne italiane, soprattutto a quelle pop affascinate e stordite dall’avvento della modernità (e dal suo riverbero sugli schemi del costume, che penetrando le tendine ricamate a orlo-giorno invadeva i tinelli accesi non più dagli abbagli del focolare, ma dai bagliori azzurrini della tivù). La bufera delle leggi razziali e della guerra soffia con leggerezza nel libro. Il padre era ebreo, subì l’allontanamento dalla famiglia a seguito delle persecuzioni antisemite – e se servisse qui un’altra testimonianza del fatto che un tale odio, vecchio, brutto, cieco e sordo, è una fenice che saltabecca intorno ancora giuliva, basti dire che recentemente è apparsa la notizia che la Valeri è stata inserita in un elenco di “ebrei influenti italiani” apparso su un sito neonazista, una lista nera in circolazione sulla rete. «Tra le rivoluzioni che ho vissuto, ma rivoluzioni forse è troppo (pensando a Danton) quella di ottobre non c’ero, quella fascista non la considero neanche una rivoluzione, ma qualche riforma sì, fra cui quella della moda. Una gran scorciata di gonne e di capelli. Quella è stata una rivoluzione», scrive nel libro (più avanti però, ricorda di essere uscita di casa angosciata, in preda dello spaesamento, dopo aver sentito al telegiornale la notizia dell’omicidio di Aldo Moro.

L’autobiografia si chiude con la confessione di un mezzo desiderio della protagonista di farsi fare un graffito biografico, uno bello lungo, e «che racconti un disturbo popolare scritto con parole rigorosamente imprecise, ma non indecifrabili»: pressappoco una narrazione di sponda, o per far contenta lei e mammà, reticente.

Laura Vicenzi

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Cover Amedit n° 20 – Settembre 2014, “VE LO DO IO” by Iano

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