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Les Misérables

Creato il 05 marzo 2013 da Af68 @AntonioFalcone1

Les Miserables1815. Digne, Francia. Dopo 19 anni di lavori forzati, condanna seguita al furto di una pagnotta per poter sfamare il figlio di sua sorella, Jean Valjean (Hugh Jackman) riceve dall’agente Javert (Russel Crowe) il foglio che ne attesta la libertà condizionata, classificandolo come individuo pericoloso, colpevole di un crimine che diviene il suo marchio d’infamia, non più un uomo, ma nient’altro che un numero di schedatura, 24601. Il reinserimento sociale appare praticamente impossibile, reietto da tutti Valjean trova infine ospitalità presso il vescovo Myriel (Colm Wilkinson), che però ripaga nottetempo col furto dell’argenteria. Arrestato e portato al cospetto del sacerdote, ritornerà libero proprio grazie a quest’ultimo: non solo il vasellame era stato un suo regalo, ma nella fretta di andar via Valjean aveva dimenticato i pezzi più pregiati, due candelabri.

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Otto anni dopo l’ex galeotto, col nome di Madeleine, è sindaco della cittadina di Montreuil-sur-Mer, proprietario di una fabbrica, ma il destino ha in serbo per lui altre prove, come il licenziamento dell’operaia Fantine (Anne Hataway), che avrebbe potuto evitare se non fosse stato distratto dall’arrivo di Javert, ora ispettore. Incontrata la donna per caso, ridotta a prostituirsi pur di mantenere la figlia Cosette, che vive presso i coniugi Thénardier (Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter), Valjean le promette, poco prima che muoia, di occuparsi della bambina. Sempre in fuga, troverà rifugio presso un monastero alle porte di Parigi. Qui, nove anni più tardi, i rivoluzionari, per lo più giovani studenti, come Marius (Eddie Redmayne) ed Enjolras (Aaron Tveit), sono pronti alla rivolta, approfittando del subbuglio popolare per la morte del Comandante Lamarque, che si era dimostrato benevolo riguardo le richieste dei cittadini. Sullo sfondo delle barricate, diversi individui, accomunati da identica sorte, tra angoscia, miseria, contrastati e contrastanti sentimenti, saranno ora chiamati a condividere tutto ciò con la Storia.
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Hugh Jackman

Hugh Jackman

Trasposizione filmica, su adattamento dello sceneggiatore William Nicholson, della versione inglese (1985) del musical scritto nel 1980 da Claude-Michel Schönberg e Alain Boubil (autori, rispettivamente, di musiche e dei testi, poi tradotti da Herbert Kretzmer), tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo (1862), Les Misérables si rivela una pellicola estremamente coraggiosa nella messa in scena, con un una resa complessiva suggestiva e coinvolgente, da buona opera lirica. Richiede, però, di scendere a patti con il regista, Tom Hooper, ed accettarne le scelte “estreme”.
Gli attori, infatti, eseguono le canzoni in presa diretta, direttamente sulla scena, senza il filtro del playback e vi è l’ assoluta mancanza di dialoghi propriamente detti, se non qualche breve parola di raccordo. La narrazione si sostanzia in un fluire musicale ininterrotto, il montaggio è volto ad assecondare modalità di ripresa che privilegiano primi piani frontali, alternati a virtuosismi con la macchina a mano, angolazioni ora dall’alto, ora dal basso, sempre in funzione di “inseguire” i personaggi, accompagnandone ogni minimo disagio e reazione agli accadimenti in cui si trovano coinvolti.
Russel Crowe

Russel Crowe

Una volta preso atto di tutto ciò, non si può, a mio parere, fare a meno di restare affascinati da una rappresentazione estremamente vivida, avvalorata dall’ottimo trittico fotografia- scenografia-costumi (Danny Cohen, Eve Stewart, Paco Delgado, nell’ordine), ispirato a dipinti d’autori famosi, quali, in particolare, Eugene Delacroix e Francisco Goya.
Più che “il bel canto”, assume rilievo la forza espressiva degli interpreti, chiamati a recitare attraverso le canzoni, adattando la loro interpretazione a tale impostazione. Crowe/Javert appare molto incisivo nella caratterizzazione dell’uomo di legge fedele a quanto scritto nei codici, terreni e divini, ma incapace di comprendere quel che resta affidato all’animo umano, a volte anche più di Jackman/Valjean, per quanto quest’ultimo sia piuttosto abile nel delineare la trasformazione di un uomo che accetta di venire a patti col destino, scontrandosi con la Storia, la quale spesso impone un determinato ruolo.
Hataway /Fantine (premiata con l’Oscar, miglior attrice non protagonista, altre due statuette sono andate al trucco e al missaggio sonoro) offre un’interpretazione emozionante, cruda in ogni passaggio della sua discesa agli inferi, verso la degradazione fisica e morale, sulle note di I Dreamed a Dream, dal taglio dei capelli all’estrazione dei molari, entrambi messi in vendita, così come, infine, il suo corpo: il dolore e l’intimo strazio di tale scelta vengono sottolineati da una breve, efficace, interruzione della musica.
Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter

Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter

Quasi un film nel film l’apparizione dei coniugi Thénardier (Master of the House), Cohen e Carter, divertente (e divertita), valida visualizzazione della “pancia” del popolo, che non solo pretende la sua fetta di torta per il semplice fatto d’esistere, ma la vuole eguale a quella di chi si è visto agevolato nella spartizione.
Da non dimenticare poi l’assolo di Samantha Barks/Eponime (On My Own), dolorosa presa di coscienza di un amore unilaterale, la morte del ragazzino Gavroche, i duetti tra Marius e Cosette (Amanda Seyfred), l’ ensemble a più voci (One Day More), in cui si avverte come ad ogni personaggio sia stato attribuito un leit motiv ben preciso, ed infine il finale, toccante ed epico, che riunisce i protagonisti sulle note di Do You Hear the People Sings?.
Per quanto essenzializzato nello scontro tra una religiosità attiva e passiva, fra quanti credono che il rispetto di sé coincida con quello per l’ordine costituito e chi, invece, nell’offrire agli altri la stessa misericordia della quale si è stati beneficiati, nel film vi è tutta l’universalità della commedia umana descritta da Hugo: la miseria di un’umanità costretta ad innalzare barricate per mandar giù quelle non meno consistenti della dannazione sociale imposta da leggi e costumi, l’inferno sulla terra che aggiunge “una fatalità umana al destino che è divino”.
Anne Hataway

Anne Hataway

Ho qui ripreso la prefazione del romanzo ad opera dello stesso autore, per il quale al progresso sociale doveva necessariamente corrispondere un innalzamento morale e non “la degradazione dell’uomo nel proletariato, l’abiezione della donna per fame, l’atrofia del fanciullo per tenebra, l’asfissia sociale di certi settori dominati da ignoranza e miseria”. Ecco perché il suddetto finale appare fortemente simbolico: il sacrificio di quanti hanno lottato, con vari mezzi, per mutare le proprie condizioni, il proprio modo d’essere, a volte vincendo, altre soccombendo, non sarà mai vano, se servirà da valido sprone per uomini che trovino nell’essere liberi il motivo essenziale della loro unione partecipativa al mutamento dello stato delle cose. La libertà non è star sopra un albero, non è neanche un gesto o un’invenzione, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione. (La libertà, Giorgio Gaber, Dialogo tra un impegnato e un non so, ‘72).

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