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Libellula

Creato il 22 giugno 2012 da Barbaragreggio

Libellula Mia madre ha efelidi minuscole che cadono dagli occhi. Labbra piene e denti falsi. Ha un sorriso che non ho mai visto, una gioia che non credo possa appartenerle. I seni sfatti si appoggiano pesanti sul ventre esageratamente gonfio. Sta distesa sul letto, rannicchiata come una bambina. Piange, di singhiozzi tremanti. La porta della stanza è chiusa a chiave, la tapparella abbassata, con le stecche fisse che impedicono alla luce di entrare. C'è odore di mughetto e acqua di rose. Io la guardo, seduta alla mia vecchia scrivania. Oscillo sulla poltrona girevole, giocherellando con un piede sulla rotella di plastica. Dovrei dire qualcosa, una parola almeno, invece resto zitta. Sfoglio le pagine dei suoi quaderni, così piccoli che stanno nel palmo della mano. Le pagine hanno righe sottili su cui l'inchiostro ha scritto frasi limpide, in una grafia chiara. Solo raramente inciampo in qualche scarabocchio, parole mozzate e uccise, cancellate con riccioli di spirali. Ci sono ritagli di vecchie cartoline, incollati con il nastro adesivo. Mia madre scrive poesie. Ha la licenza elementare, a undici anni lavorava come sciampista dalla parrucchiera del paese. A quattordici faceva la sarta, cuciva jeans che non indossava. Ora penso a lei come non ho fatto mai. Anche mia madre deve essere stata giovane, con dei sogni. Bellissima, con i miei occhi grandi, solo più scuri, e la pelle chiara. Un corpo esile che io non ereditato, un seno minuscolo da offrire come pegno d'amore. La vedo che prende la corriera e lascia il paese, si spinge ai confini della città e lavora. Non è mai stata in città da sola. Non ha mai viaggiato, mia madre. Provo il desiderio sconsiderato di prenotare un albergo, di portarla via con me, di farle vedere l'interno di un treno, la hall di un albergo, la sala colazioni. Una stanza che affacci sul corso di una grande città. La vorrei portare dove io ho trovato la libertà. Invece la guardo addormentarsi tra le lacrime. Vuole morire, mia madre. Lasciarmi orfana, in un'età in cui non posso finire chiusa in un orfanotrofio. Vuole andarsene via, lontano da questa vita che è stata solo dolore. Un dolore che io, a tratti, ho annusato, ma su cui non ho mai indugiato. Un genitore non soffre, un genitore reagisce. Un genitore è una persona come tutte le altre, anche se ci ha messo al mondo. Mia madre è stata una donna splendida, rovinatasi prima ancora di raggiungere l'apice della sua bellezza. So che non si giudica una persona dall'aspetto fisico, ma lei era meravigliosa. Le labbra carnose che mi ha regalato, un viso dolce. Era bionda, nelle foto da ragazza. Con i pantaloni a zampa d'elefante e la canottiera sottile. Ora il suo corpo non ha più forma, il grasso ha schiacciato la sua leggerezza.
Per anni è stata sposata, e tutt'ora lo è, a un uomo che non ha mai amato. Le piaceva Gianni, il ragazzo che la baciava su un poltrona dell'ultima fila, nell'unico cinema del paese. Per trentacinque anni ha diviso l'intimità della sua casa con la suocera, una donna aspra di sentimenti e rude. Mia madre, negli ultimi vent'anni, ha amato un altro uomo. Uno che io conoscevo bene. Parlo al passato perché lui è morto. Si sono sfiorati per buona parte della loro vita adulta, scambiandosi baci e carezze. Se ci penso ora, credo che avrebbe voluto avermi da lui e non da mio padre. Non ha realizzato nessuno dei suoi sogni, mia madre. Ha passato la vita a pulire i cessi degli altri, chinata sulle mattonelle sporche di estranei. Tutti, tranne lui. Lo accudiva amorevolmente, gli puliva casa, rifaceva il letto sui cui lui dormiva con un'altra, immergeva le dita nei suoi abiti, intrisi di un profumo che nemmeno la morte può farle dimenticare. Mia madre è stanca, io sono grande. Certo, è nonna. Si aggrappa a mio figlio per non morire adesso. Lo farà fino a quando respirare le sarà ancora un peso sopportabile.  Nei suoi quaderni ci sono pagine strepitose, uso questo termine senza esagerare. Strepitose perché lei non ha cultura, gli unici libri che ha letto in vita sua sono i romanzi Harmony. Eppure ha dimestichezza con le parole, le usa bene, scovando metafore dolcissime e al tempo stesso strazianti. Scrive di morte, principalmente. Ha affidato a quattro piccoli quaderni la sua vita di dolore. Non ha avuto nemmeno l'ombra diafana di ciò che ha desiderato. Per molti motivi, alcuni gravissimi, ce l'ho con lei. Non provo pietà. Eppure stanotte c'è dolcezza nei miei occhi che guardano i suoi respiri trattenuti. Verrà il giorno in cui questo letto, sui cui lei dorme e sui cui io sono diventata donna, sarà lasciato vuoto. Da lei, dal suo corpo ingombrante. Dall'anima esile di una bambina che ha guardato la vita andare in frantumi, senza sapersi opporre. Lotterò io anche per lei.  Mia madre stanotte è una libellula. Dragonfly che vola nel cielo. Barbara Greggio

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