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Livio Berruti nell’era 2.0

Creato il 18 aprile 2011 da Sportduepuntozero

L’atletica ai tempi della Cinquecento

di Ilaria Garaffoni

Livio Berruti nellera 2.0
Nel 1939 Gilberto Mazzi sognava di avere mille lire al mese. Nel 1960 Livio Berruti guadagnava 1.200.000 Lire e una Fiat 500 grazie all’oro olimpico conquistato nei 200 metri alle XVII Olimpiadi di Roma. Berruti, con gli immancabili occhiali da sole e i calzini bianchi, fermò il cronometro sui 20″5 battendo gli ultrafavoriti americani. Li sconfisse sulla terra battuta, non sul sintetico che restituisce la spinta, e senza sponsor appiccicati addosso, perché a quei tempi “si gareggiava con ingenuità e semplicità”. Quarantacinque anni dopo l’impresa romana, Berruti è tornato nella sua città natale come tedoforo alle Olimpiadi invernali di Torino nel 2006.

Livio Berruti: maturità classica al liceo Cavour e un cuore matematico, che ti ha portato a rincorrere il centesimo di secondo. Qual è l’approccio alla vita di Livio Berruti: scientifico o classico?

Ho avuto una formazione più filosofica negli anni del liceo, ma all’Università ho poi scelto chimica, quindi una materia decisamente scientifica. Mi potrei definire “un ibrido”.

Quando hai scoperto di essere veloce come un fulmine? Chi o cosa ti ha avvicinato alla corsa?

Il caso, credo. Ai tempi della scuola il mio insegnante di educazione fisica mi osservò mentre sfidavo un ragazzo in una gara di 50 metri nel cortile. Da lì cominciò tutto: venni iscritto ai campionati studenteschi dove vinsi facilmente. Poi entrai nel gruppo sportivo Lancia e iniziai a farmi conoscere, partecipando alle prime gare dei 100 metri.

…Il resto si sa. Torniamo al momento clou della tua vita atletica: la finale di Roma. Tu indossavi il pettorale 596. All’inizio hai fatto una falsa partenza, l’unica nella tua carriera.

E’ vero, non hai mai fatto false partenze, ma il rumore di spinta dell’atleta dietro di me sui blocchi di partenza mi ha distratto.

E’ stato frutto della distrazione anche la scelta di indossare le scarpe bianche al posto delle Adidas?

Avevo le calze bianche e volevo mettermi un paio di scarpe in tinta…mi ero montato un po’ la testa in vista della finale. Ma il bello venne dopo la gara. Arrivò il responsabile Adidas e mi disse: “perché non hai gareggiato con le nostre scarpe, ti avrei dato 300.000 lire!” La verità è che non ne avevo idea. Questa era l’ingenuità e la semplicità con cui si gareggiava in quegli anni…

Leggi l’intervista completa sul numero di Aprile di Sport 2.0

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