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LO SCRITTORE DEGENERE | Vita, opere e altre delizie di Colette

Creato il 31 marzo 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

bannercolettedi Pier Angelo Sanna

In me si muove …un’insurrezione che nel corso della mia lunga vita ho spesso rinnegato,

poi battuto d’astuzia, infine accettato,

perché scrivere non porta che a scrivere.

   Colette

CAPOLETTERA
Ci vuole un gran talento per riuscire a essere, in una vita sola, splendide donne e scrittori di razza. Ma ci vuole a dir poco un miracolo per essere, sempre nella stessa vita, anche giornaliste squisite, stelle del varietà discusse, baronesse quasi per caso, presidenti dell’Académie de Goncourt quasi per fato avverso, tenutarie di saloni di bellezza così, tanto per gradire, avere negati dalla Chiesa i funerali religiosi e invece vedersi concessi quelli di Stato quando mai a nessuna donna prima era stato concesso. E, è questo il miracolo, saper scrivere magnificamente di qualunque cosa. Di moda e di giardinaggio, di cucina e di psicologia criminale, di critica teatrale e cinematografica, di donne e di uomini, di cronaca giudiziaria, nera e rosa. Se, nelle parole di Simone de Beauvoir, era “l’unico scrittore donna di Francia”, François Mauriac, appena ritirato il Nobel, la chiama per dirle che, in realtà, sarebbe spettato a lei. Ormai ottuagenaria, e dopo averne combinate di ogni, alla prima di un documentario sulla sua vita pazzesca, sua altezza Colette se ne esce cinguettando un indifferente, seppur cordiale: “Che bella vita ho avuto. Peccato non me ne sia accorta prima.” Mentendo sfacciatamente – e splendidamente – come sempre.

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Dotata di una rara vastità di vedute coronata da un’intelligenza spudoratamente libera, che faceva innamorare di sé uomini, donne e bestiame vario, madame Sidonie Gabrielle Colette nasce nel 1873 in Borgogna, a Saint-Sauver en Puisaye, uno sputo di paese dove tuttavia, sin da piccina, avrà l’opportunità di crescere in tutto e per tutto simile a un animaletto selvatico. Resterà un essere selvatico fino alla fine.

Corpo atletico e mente ancora più elastica, con la scusa di sposarsi con quella vecchia volpe di Henri Gauthier Villars in arte Willy, la bestiolina dalle trecce lunghissime dice addio a Saint-Sauver e trasloca a Parigi dove, col tempo, perderà le trecce, si risposerà altre volte e diventerà una scrittrice tanto amata quanto detestata. Fin da subito, soprattutto invidiata.

Il suo apprendistato sarà tra i più leggendari. Durante tutta la vita Colette sarà tante persone, interpreterà tante donne, indosserà tante identità insieme e ogni volta si dimostrerà all’altezza di ogni ruolo. Intelligente, libera, coltissima, ricca di contraddizioni e bugiarda quasi per partito preso, Colette amerà in lungo e in largo. E, non si sa come, troverà il tempo per calcare le scene dei teatri, bazzicare qualche redazione giornalistica, viaggiare moltissimo e frequentare  sia il milieu del suo tempo, sia i bassifondi più infimi, l’aristocrazia più ancien e i delinquenti di più bassa lega, divertendosi ovunque e con chiunque, nonché dispensando consigli eterni alle ragazze di ogni tempo come il seguente: “Scegli il colore di un abito dopo mille esitazioni, ma per l’amor di Dio sposati senza rifletterci! Questa è la grazia che ti auguro. Forse quel giorno sarai così distratta che passerai oltre l’ufficio del comune dimenticandoti di fermartici.” Ci sarà sempre un che di selvatico in questa donna fiera che non apparterrà mai a nessuno, fuorché alla scrittura, così come di selvatico odorano le sue pagine migliori, quelle scritte magari in viaggio, usando la valigetta del trucco come scrittoio e, osservando lo scorrere di paesaggi, inanellando regionalismi intraducibili e termini scientifici presi dritti dalla biologia. Quei paesaggi de La retraite sentimentale, per esempio, descritti come solo un animale sarebbe capace di fare. Senza giudizi, senza apriorismi di sorta, fondendosi anzi con l’oggetto osservato, essendone sua parte. O quelle pagine de La Vagabonde dove la protagonista, cosa assai rara sia per un personaggio femminile sia per una donna, chiama le cose, sentimenti compresi, col loro nome. O ancora quelle di Claudine à l’école dove la precisione botanica diventa una forma di rispetto per le piante, gli animali, i fiori, gli alberi che le consentono di intessere metafore raccolte dalla natura che la circonda e, insieme, la possiede, la attraversa, chiede a lei di essere la sua interprete: “Moi ça ne me dit rien du tout, ces descriptions- là!”, esordisce Claudine, dopo aver dichiarato il suo diritto alla libertà già alla prima riga: “Je m’appelle Claudine, j’habite Montigny; j’y suis née en 1884; probablement je n’y mourrai pas.”

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Definita artista da circo equestre, tra gli altri, dal condirettore del Matin – che si dimetterà quando il giornale la assume –, i critici non perderanno occasione per rimproverare a Colette di essere soprattutto “perversa e senz’anima”, come se le cose fossero difetti. Quando, insieme alla sua compagna Missy, si esibisce sul palcoscenico del Moulin Rouge, il pubblico, specie quello maschile, lancia loro qualsiasi cosa. Monete, bucce d’arancia, carta di caramelle, spicchi d’aglio e persino i cuscini delle poltrone. E poi fischi, insulti e: “Abbasso le lesbiche!”. Le due andranno eroicamente avanti e, schivando gli oggetti volanti, imperterrite porteranno lo spettacolo fino in fondo.

Tra le bellissime biografie della scrittrice, quella scritta anni fa da Judith Thurman (Una vita di Colette. I segreti della carne, trad. di Bruno Amato) ebbe il merito di dare rilievo a un fatto senza considerare il quale, forse, non si può comprendere l’opera di uno dei più grandi scrittori del Novecento europeo. Saggiamente Thurman annovera Colette tra i grandi Bastiancontrari del Novecento o, per meglio dire, dei primi anni del Novecento, quando ancora imperversava la vecchia religione veterocartesiana dell’oggettività. Almeno finché, in quegli stessi  anni, essa non venne colpita a morte e definitivamente mandata a stendere da Freud con il suo assalto all’idea errata di coscienza oggettiva, da Einstein che riserverà la stessa sorte alle idee di tempo, spazio, materia e energia assoluti e da Proust che, infine, darà il colpo di grazia alla presunta verità della memoria. La forza dirompente di Colette si infrangerà sulle scogliere scoscese di un altro antico dogma, probabilmente il più duro a morire: il genere. Fin dal suo romanzo d’esordio, la norma per lei semplicemente non è cosa attendibile. Il maschile e il femminile sono considerati con un’alzatina di spalle, in quanto costrutti culturali ai quali non dare troppa retta, imposizioni pedagogiche senza alcuna razionalità effettiva, ingiunzioni artificiose e tuttavia sbandierate, ai suoi tempi come ai nostri, con la stessa fede con la quale si dichiara l’esistenza di dio: senza uno straccio di prova razionale. Facendone, per l’appunto, una questione di fede,nel peggiore dei casi nuziale. Mentre sta lavorando al suo bellissimo Le pur et l’impur, in una lettera a un amico, riassume la sua idea e, in un certo senso, la sua stessa vita: “Vorrei la tua opinione su quanto sto scrivendo sugli unisessuali… Si potrebbe impostare il capitolo in questo modo: Unisessuali / Capitolo primo e unico / Gli unisessuali non esistono.” Per questo Colette non era omosessuale pur andando a donne che è un piacere, così come non era una giornalista né un’estetista pur avendo fatto,

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tra gli altri, anche questi lavori. Era un individuo pensante tanto sulla pagina quanto nella vita. Ha sempre ambito alla non catalogabilità come via di scampo dalle costrizioni sociali, quale libertà di pensiero e di azione. E c’è riuscita. Fin da subito, fin dal suo primo splendido romanzo, Colette, non aderendo a nessuna moda né scuola, le supera tutte perché è già Colette. Il suo destino è già tra i grandi.

Donna di una sensualità libera e indipendente dai parametri altrui, sulla pagina non bamboleggia mai. Mai fa la furba, né janeaustenta pizzi né merletti psichici di figurine femminili che, prima o poi, inevitabilmente l’amore salverà, uccidendole. Le donne di Colette, au contraire, sono piuttosto condannate all’intelligenza e alla fatica che costa pensare con la propria testa. I suoi personaggi, come l’indimenticabile Léa di Chéri, non conoscono solo la differenza tra il sesso e l’amore. Conoscono anche quella tra la menzogna e la verità e sanno per esperienza come la prima non sia altro che un punto di vista tra gli altri, e non sempre il meno esatto.

Poco prima di morire Colette scrisse: “Quello che mi piacerebbe: 1. ricominciare; 2. ricominciare; 3. ricominciare.” Lo stesso si pensa quando si sono letti i suoi libri.

Pier Angelo Sanna

AMEDIT MAGAZINE, n. 18 – Marzo 2014. Cover

AMEDIT MAGAZINE, n. 18 – Marzo 2014. Cover “Senex” by Iano

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 18 – Marzo 2014

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