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Lo sfottò

Creato il 28 luglio 2014 da Cultura Salentina

Lo sfottò

28 luglio 2014 di Titti De Simeis

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Si inizia nell’età in cui la personalità non permette la piena affermazione di sé. Per vari motivi: insicurezza, paura, frustrazioni, mancato svezzamento psicologico, inadeguatezza o semplicemente voglia di sentirsi ‘al di sopra’ non avendo altri mezzi per farlo.

Così comincia il percorso di chi ama ‘sfottere’ e non si ferma davanti a niente, perché l’azione del ‘prendere in giro’ è fonte di forza anche intellettuale, per i molti.

Apparentemente innocui, taciturni, remissivi, alle prime avvisaglie di confidenza con qualcuno, tirano fuori quest’arma che nessuno si aspetta e si destreggiano impavidi si se stessi, protetti da un’armatura invincibile: la stupidità.

Il gioco non preoccupa se si tratta di poche battute. Fin lì si è pronti ad accettare e a far buon viso. Il peggio viene quando, gli stessi paladini dell’ironia in panchina, cominciano ad usare lo sfottò  in circostanze improbabili e inopportune, diventando sconvenienti.

Nel bel mezzo di una chiacchierata su argomenti di un certo spessore o serietà, costoro tirano fuori, che vada bene, una frecciatina irriverente andando ben oltre il seminato. Accompagnando il tutto con una risatina sarcastica che nessuno comprende e della quale solo loro si compiacciono, accrescendo ancora di più lo stupore degli astanti nel momento in cui cercano, anche, di spiegare la cosa.

E fin qui siamo ancora nel cerchio della tolleranza.

Si perde completamente quota quando, ormai padroni del silenzio rispettoso degli altri che contengono i pensieri per educazione, frenandone la piena, i ‘signori della presa in giro’ iniziano a pizzicare in ogni dove senza contegno né ritegno, offendendo e deridendo spudoratamente mentre esaltano il loro scibile o ciò che lo contiene (a loro dire).

Ecco che chi li ascolta inizia a cedere, fisicamente, perché la mente è già a brandelli e, si sa, il corpo da segni di ribellione per ultimo, quando si è colmi al punto giusto. Inutile dirlo, sono segnali che la ‘mente fresca’ di fronte a noi non coglie nemmeno per caso.

Ed ecco che arriva un secco: ‘adesso basta’, con tutto ciò che si può immaginare e che ne è conseguenza, umanamente comprensibile.

Lo sfottitore si azzittisce, sgrana gli occhi in senso di incredulità e sgomento, non ancora conscio di aver scatenato l’aut aut. Si ricompone vestendo un sorriso misto tra ‘ora che faccio’ e ‘che sarà mai’ mentre assume pose involontarie da pentimento adolescenziale come le mani tra le gambe o lo sguardo basso in cerca di una tana. Ma è troppo tardi. Il danno è alle porte ed è inutile puntellarle con pietismi.

Succede sempre quando si è fin troppo scavato nella sabbia della sopportazione e dell’accondiscendenza altrui. E quando si è troppo creduto di essere ‘meglio di’.

Lo sfottò racchiude in sé una cultura che ha confini ben precisi, contenuti in determinati ambiti, quelli dell’ironia elegante e del testo letterario, e fa parte di un preciso genere, e come tutti i generi va scelto da chi sa gestirlo. Son confini anche molto labili e, se non si possiede la cultura del buon senso e dell’intelligenza, si travalicano irreversibilmente. Fare uso dello ‘sfottò’ nel quotidiano comporta rischi molto elevati, e se non si è allenati all’autocritica, si finisce col diventare ‘fuori luogo’ e, in extremis, con l’essere tenuti lontani da qualsiasi interlocutore in possesso di un minimo di equilibrio.

Le conoscenze personali di costoro non avranno fondamenta, vivranno di stagioni transitorie e richiederanno sempre nuove leve: non c’è storia per gli sfottitori in carriera, non c’è storia di mente né di cuore. Sarà un continuo ricominciare fino alla prossima caduta del velo della finzione. E così, via dicendo. Pesantemente se stessi ma fieri di esserlo. Fino alla fermata senza più vagoni, se non quello vuoto della loro stessa eco, in cui non trovare più che il silenzio.

 


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