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Longarone, diga del Vajont. Un viaggio dell’anima.

Creato il 17 maggio 2013 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Sì, è vero, il Giro d’Italia è un viaggio veloce, intenso. Tappa dopo tappa, vincitore dopo vincitore, il turbine vorticoso del tempo liquida tutto in una notte di sonno. E l’indomani è un altro giorno.

Ma non è così per il Vajont. Almeno, non lo è per me. E’ un viaggio dell’anima, quello che porta a Longarone che, anche nell’emozione dei momenti che scorrono veloci e vorremmo afferrarli tutti, riesce a fermare qualcosa dentro. A dire: “Aspetta, il Giro va, continua a pedalare per le strade d’Italia. Ma qui no. Il tempo, nonostante la ricostruzione, nonostante gli anni, si è fermato alla sera del 9 ottobre 1963”.

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Ti accorgi che stai arrivando a Longarone quando il paesaggio che scorre fuori dal finestrino del treno cambia: alla terra chiarissima, arsa dal sole e le belle casette si sostituiscono paesini ombrosi vegliati dalle montagne. La prima cosa che vedi, prima ancora del paese vero e proprio, è lei. La diga. E’ là, immobile e terribile, sopravvissuta. E’ là, incastrata nella valle tremendamente profonda, così profonda da meritarsi il nome inquietante di Gola del Diavolo. Penso subito a quelli che, da lassù, costruendola, sono morti. Caduti nella voragine incredibile, pagando con la propria pelle, l’avanzata di quella che tutti chiamavano “tecnologia”. Tecnologia che ha portato via più vite di quanto si fosse mai immaginato. Tecnologia che aveva più odore di soldi che di altro.

Dalla stazione si deve fare qualche rampa di scale per arrivare su, al paese vero e proprio. Quello che è stato completamente ricostruito, dopo il disastro che l’aveva spazzato via come un presepe di cartone. Longarone è come tanti paesini di montagna, sembra avere lo stesso silenzio, la stessa routine, eppure dalle foto, dalle targhe che ricordano, si capisce che, da quel giorno, non sarà mai più un abitato come gli altri.  Oggi però, le sue strade sono colorate di rosa: sui balconi, sulle finestre, sui lampioni ci sono i palloncini e le coccarde che segnano l’attesa del Giro d’Italia. Le scritte “W il Giro” sono ovunque e in tutte le vetrine.

C’è giusto il tempo di lasciare i bagagli al B&B, scambiare due parole con i proprietari e poi incamminarci su  verso l’arrivo, verso la diga. Sono circa dodici chilometri a piedi di cui otto in salita. Non spaventano. Niente spaventa quando si cammina o si corre verso un arrivo. E così si comincia a salire sotto un sole di inizio estate: il cielo è azzurro e l’aria fresca di montagna porta solo qualche nuvola bianca, per niente minacciosa. Sole e gente. Sempre di più. A piedi, in bicicletta. Non c’è età per il ciclismo: i bambini più piccoli salgono mano nella mano ai grandi, un coraggioso si arrampica con la sua biciclettina, assieme al papà che lo incita. Gli anziani, con le loro sedie pieghevoli e le ciabatte infilate sui calzini, aspettano pazienti, in una chiazza d’ombra, il passaggio dei ciclisti. E forse a loro che sono stati testimoni di quella notte, forse sopravvissuti per divine coincidenze, sembra surreale che cinquant’anni dopo, da lì, dove è passata morte e distruzione, passi la festa. Una festa che commemora, che non dimentica i suoi fratelli sparsi in tutta Italia. Sì, è commovente come quella via che porta su, a quello che è un po’ un sacrario di ricordi dolorosi, diventi per un giorno la strada dei sorrisi.

I cartelli che indicano i chilometri mancanti sembrano sempre più lontani mano a mano che si sale: prima sei, poi cinque. Quattro. Da un baracchino dove si cuociono salsicce e si beve birra, la telecronaca di Pancani che gracchia da uno schermo piazzato su un treppiede, accanto alla griglia, dice: “Due passisti all’inseguimento del gruppetto di testa! Due passisti: Ramunas Navardauskas e Daniel Oss” Qualcuno mi grida: “Bionda, fermati qua! Basta salire!” No, non si può smettere adesso. Quasi di corsa, col cuore in gola, voglio arrivare più su possibile, più vicino che posso alla vetta. Fa caldo e avrei voluto i pantaloncini corti ma, nel ciclismo, non importa se il sole scotta troppo o la pioggia cade fitta, tutto si fa e tutto si sopporta per vedere il passaggio di un istante. Tendo l’orecchio quando sento che qualcuno, su qualche dispositivo, sta ascoltando la telecronaca che, all’aperto, va dappertutto. E’ nell’aria, tra quelle montagne. Quando passa il Giro non esiste più niente.

Quando si vocifera che, tra poco, i corridori saranno qui, ho davanti una galleria: ottocento metri. Pochi o tanti? Non me lo chiedo. Mi metto a correre. Gli archi che danno luce al tunnel danno, oramai, sulla diga. La vedo a sprazzi, tra il sole e il buio. Non ho tempo di pensare a niente se non a uscire da lì. Finalmente una curva di asfalto, il Vajont: l’uscita. Forse non è un posto tanto adatto per fermarsi ma le moto arrivano. Non c’è tempo: due chilometri mi separano dall’arrivo. Scavalco il guard rail e rimango lì. Il silenzio è assordante, come l’attesa. La solita attesa. Di che cosa è fatta? Impossibile a dirlo. Mi giro e la diga è là, tutta nel sole. Non fa paura vista così, sembra un’opera architettonica come altre. Guardare giù sì che fa paura: la Gola del Diavolo fa venire le vertigini, sembra infinita. E la sala comandi laggiù, a metà della costruzione, che fa da ponte tra un versante e l’altro, fa venire i brividi: abbandonata, con il tetto arrugginito, sembra l’inquietante conferma della sconfitta perenne dell’uomo nella sfida con la natura.

Il silenzio è finalmente interrotto. Arrivano le macchine e poi Ramunas Navardauskas, figura che sfreccia via per prima, dietro la curva, per imboccare un’altra galleria, per macinare altri chilometri. Gli ultimi di oggi. Silenzio di nuovo, secondi che passano interminabili. E poi, dal buio della galleria, esce una figura rossa e nera: Daniel Oss. Stringe i denti e pedala, della sua pedalata che mi sembra abbia quasi un suono concreto, che rimbomba sulla parete della montagna. Urlo, con il fiato che mi è rimasto. Tutto quanto, fino a che la curva se lo porta via, guerriero solo, curvo sulla bicicletta. So che Ramunas è lontano, che ha un bello stacco. Ma non smetto di sperare che possa riprenderlo. Se la merita, una vittoria, Daniel. Perché è una di quelle figure, in gruppo, che ha il dono di avere tante sfaccettature e tante sensibilità. Il fisico, la grinta è da passista, è vero. Lo spunto veloce è quello da uomo del treno. Ma la strada che porta su al Vajont non è piana. E’ qui, su queste pendenze che sanno essere arcigne, la dimostrazione che Daniel ha il cuore da campione, da viaggiatore esperto, che sa adattarsi all’asfalto come al pavè, alle salite come nelle discese. Ribelle. Anche Hinault diceva che bisognava essere ribelli, in bicicletta. Le ribellioni, quelle sane, che ti fanno strappar via dalla pelle le etichette che ti cuciono addosso, che fanno trovare nuove strade, nuove vie, sono quelle che portano alla vittoria. E le vittorie dei ribelli sono quelle più belle che ci siano. Sono faticose, selvagge, profumano di libertà. Perché vanno controvento, controcorrente.

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Mentre continuo a salire verso il traguardo e i ciclisti passano a gruppetti sfilati, mi arriva, da non so dove, la notizia che Navardauskas ha tagliato la linea bianca per primo. Niente vittoria, d’accordo. Ma questa non è un’occasione sfumata ma, piuttosto, una prova di coraggio. Il Giro è questo: ogni tappa un mondo, ogni giorno un vento diverso, da domare, per correre forsennatamente verso l’arrivo. Arrivo che è tutto, oltre a essere parte del tutto.

Ed è questo che mi rimane quando arrivo in cima, al traguardo, mentre stanno smontando le transenne e i ragazzi hanno più birra in corpo che sangue: oggi Daniel, che assaggia il Giro per la prima volta, ha domato quel vento, è arrivato lassù, nel ruolo inedito di scalatore. Ruolo che nessuno aveva intuito potesse interpretare così. E’ questo che mi porto via dal Vajont, mentre riprendo a scendere, mentre le nuvole cominciano a farsi più scure e l’aria più fresca. L’asfalto è reduce delle baldorie dei tifosi e laggiù la diga si fa più scura, come le montagne che la vegliano. Guardo quello che, un tempo, era l’invaso. Ripenso alla gente che è stata sfrattata dalle proprie case, lì nella valle, solo per far spazio a un lago d’acqua. Mi ripeto, come una cantilena, le parole di un articolo di Tina Merlin: “Questa valle che prima era nostra, adesso non lo è più. Qualcuno ha deciso che deve morire e, al suo posto, ci deve essere un lago. Allora noi chiediamo a questi signori: se domani vi cacciassero dalla vostra casa, dandovi pochi giorni per fare i bagagli, cosa vi portereste dietro?”

Guardo il monte Toc, con la ferita della frana ancora aperta. Non è cresciuto più niente lì, dove la terra rotolò via per piombare nel lago a novanta chilometri orari. Toc: aveva ragione chi iniziò a chiamarlo così. “Canta de crep” si direbbe in dialetto Brianzolo. E’ pieno di crepe, è una montagna che non avrebbero dovuto toccare o infastidire. Invece gli hanno messo l’acqua ai piedi e quella notte il Toc venne giù.

La sera scende lentamente su Longarone e non sembra vero che il meteo, per il giorno dopo, preveda pioggia. E’ serena, l’aria. Fuori il paese si prepara alla notte e noi ascoltiamo quello che il proprietario del B&B ha da raccontarci sulla vita qui, all’ombra del Vajont. Storie. Tante. Che si intrecciano e sembrano dei romanzi. Un suo amico si è salvato per miracolo: l’onda si è portata via un angolo della sua camera da letto. Il letto, per fortuna, era addossato alla parete opposta. Ci dice anche di lui, della sua vita che non si è scontrata con la tragedia ma con altre avversità. E ne è sempre uscito vincitore, con tenacia.

Comincia a piovigginare leggermente quando ci racconta di una sequoia. Una sequoia gigante che ha resistito al fango e all’acqua di quella notte. Il suo tronco enorme è ancora segnato dall’impatto. Ma le sue radici non si sono divelte. Come una specie di segno miracoloso, quella sequoia si eleva ancora adesso, alta, nel cielo dopo aver conosciuto l’orrore. Segni che sono come cicatrici, incise nel legno, come sulla pelle viva.

Mi addormento e mi sveglio con il pensiero della tenacia di quella sequoia. Fuori piove. Piove tanto e le montagne che custodiscono la diga sono avvolte dalla nebbia. Usciamo per vedere com’è il clima prima della partenza e un vento gelido, che sembra appartenere agli ultimi giorni di febbraio, ci spazza via gli ombrelli. Fa freddo, le strade sono lucide e tutto è già inzuppato d’acqua. I corridori dovranno ripartire ancora, questa mattina. Sì, il Giro riparte. Come ogni giorno, come sempre. Sotto il sole o sotto l’acqua. Il ciclismo è così: è bello e senza pietà. Bighellono con le scarpe inzuppate e i pantaloni fradici tra gli stand e i pullman. Penso ai ciclisti che dovranno correre in quelle condizioni e penso alla sequoia gigante. Hanno un che di miracoloso anche loro, questi ragazzi che portano la loro umanità per le strade e si lasciano sferzare dal vento, dalla pioggia. Eppure sono sempre lì, pronti ogni mattina: magari incerottati e con il mal di gambe. Ma non c’è alternativa, sono lì. Anche loro, come la sequoia, con le proprie cicatrici: profonde o superficiali, visibili o invisibili. Si ergono alti, tenaci, sulle biciclette, nonostante tutto.

Grosse gocce di pioggia rotolano giù dai vetri appannati quando risalgo sul treno, inzuppata e senza fiato. Al volo. L’ultimo treno per casa. Le porte si chiudono, il convoglio sbuffa e tento di sbirciare, dal finestrino, per l’ultima volta, la diga. E’ lontana, persa nella pioggia e nella nebbia di un giorno di maltempo. Ciao, Vajont. Non è mai bello andarsene da un posto che ti ha lasciato qualche cosa di importante e profondo. Ma la vita, come il ciclismo, è un viaggio continuo. Quello che rimane, più concreto che mai, sono le storie che ci vengono raccontate. Le storie, le voci che vengono dal gruppo, dalla montagna, dalla strada.

Ciao Vajont. Le tue storie, le tue verità non verranno mai chiuse definitivamente nei cassetti. E non perché ci sia la diga, lassù, imponente e silenziosa a ricordarle. Ma perché le voci di chi non c’è più riecheggiano ancora in quella valle chiusa, lì, tra i prati che sono ricresciuti dove il fango ha portato via vite semplici, che stavano bene così, anche senza quel mostro incastrato nella gola dalle mani avide di chi, da sempre, gioca con l’esistenza delle persone.

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