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Lorenzo Viani, Un’ombrellata di vino

Da Paolorossi

La gente rivierasca sale le pendici della millenaria Pieve a Elici, assorta nel pensiero che qui, dove oggi mareggiano pallide e cenerine ondate di olivi, nereggiavano lecci abbarbicati alla roccia granitica che il mare, oggi così lontano, rodeva e frantumava.

Al fonte battesimale, di rude costruzione romanica, di questa umile Pieve dall’ossature di granito pietrificato, a cui i secoli pare abbiano dato lo spalmo della pece bollente, come allo staminare delle barche a vela, furono battezzati gli antichi padri nostri, tutta gente d’attracco e d’arrembaggio, ciurme erratiche, navilestre, le quali ricettavano in queste ombrose calanche le loro tartane.

Viareggio - Un carico di vino in fiaschi di paglia agli inizi del 900  - Foto tratta da

Viareggio – Un carico di vino in fiaschi di paglia agli inizi del 900 – Foto tratta da “Come eravamo-Lucca” – Ed. Il Tirreno

Oggi dai paesi rivieraschi si scorgono i verdi pendii della Pieve a Elici, inghirlandati di vigneti feracissimi, protetti dal rigore dei venti invernali dalle brulle pietrose impervie Apuane, e questi luoghi sono la mèta di tante ottobrate. In queste mattine fresche, dai cieli tersi e celesti con nuvolette simili a quelle che vagano nei cieli del Mantegna, tra il cenerino argento degli olivi, su cui biancheggia il fumo dei casolari, acceso dall’oro dei pagliai, salgono, per antica usanza, verso le aie profumate di vino razzente, comitive di poeti e di cantastorie a celebrare la copiosa svinatura. La Pieve a Elici, Montemagno e Pedona, Mommio e la Sassaia e Stiava, lo Scosciato e lo Strinato risuonano di canti arguti e di risate strepitose.

Tra il folto di un oliveto, dietro il palazzo podestarile di Massarosa, tra una vegetazione di giovani oleandri, spicca un casamento di color rosa a stole bianche, come una stoffa del secolo scorso, stesa ad asciuttare su di una fiorita di aranci. Questa casa dalle sobrie linee granducali, come lo attesta una storica epigrafe, fu mèta a raduni poetici, i quali pare solessero avvenire nel mese d’ottobre, quando i tordi migrano verso i folti oliveti di Montecarlo:

«In questa modesta casa dei Giorgini di Montignoso – abitarono alternativamente, per gran parte del secolo decimonono, i senatori Niccolao Gaetano e Giovan Battista Giorgini, benemeriti per servigi resi alla Patria – in diversi tempi e governi, e qui largamente ospitarono i maggiori uomini dell’età loro, tra i quali giova ricordare Giuseppe Giusti, Antonio Rosmini, Massimo D’Azeglio, Alessandro Manzoni, la cui figlia Vittoria, moglie a Giovan Battista Giorgini, qui si compiacque abitare nell’ultimo scorcio della sua vita, e qui si spense il 15 gennaio del 1892. – Il Municipio di Massarosa pose il 1911».

La bella e chiara epigrafe, dettata da Alessandro D’Ancona, mi ha invogliato a varcare la soglia della modesta casa ospitale, oggi di proprietà del medico condotto di Massarosa, Cosimo Pellegrini il quale l’abita e degno figlio di un poeta, ha lasciato la casa così come l’ha trovata: grande focolare con la cappa del camino della larghezza di una tettoia, carrucole e catene le quali cigolarono per far arrosolare le schidionate dei tordi, panconi di rude castagno bronzati dalle crepitanti fiammate dei sarmenti, scaffali su, presso le travature, dove si allinearono i recipienti del rosso vino locale, ganci da cui pendevano i prosciutti sapientemente drogati e impepati, con trofei d’agli e di cipolle.

Sul pancone di sinistra soleva assidersi Alessandro Manzoni, compiacendosi d’ascoltare le favole narrate dai semplici paesani; su quello di destra sedeva Giuseppe Giusti, ascoltando il proverbiare arguto dei campagnoli, e nel pancone di mezzo (il più alto e il più capace) stava tutta la comitiva coi familiari. Intonato alla semplicità ottocentesca della grande cucina è un ritratto austero e composto: il nonno del Pellegrini, quel tal signore a cui accenna Massimo D’Azeglio nelle sue Memorie, che trasportò lo scrittore, in barroccino, da qui alla Marina di Massa.

Il fratello del medico condotto, Carlo Pellegrini, professore e letterato, mi ha condotto nella camera modesta in cui, il 15 gennaio 1892, si spense Vittoria Giorgini.
– Qui, il 18 marzo del 1922, è morto mio padre.

Non senza commozione io ho veduto la modesta camera dove si è spento l’unico, il solo poeta viareggino, Maurizio Pellegrini. Sul bianco davanzale marmoreo della finestra, foglie del sottostante limone, lanceolate, sembravano rami d’alloro, di cui il vecchio maestro fu sempre schivo. Maurizio Pellegrini, novantenne, alto, con la fiera testa aureolata di capelli bianchi, passava, con lo stampo della sua pacata bontà sul viso, per le strade rettilinee di Viareggio, ch’egli per sessant’anni aveva educato nelle scuole, e si smarriva nella pineta o sul mare in un mite stato di grazia. Uomo e maestro modesto, felice di cantare in tono minore, quasi per non essere inteso da nessuno. Viareggino, e quindi uomo di solitudine operosa, risalendo i corsi dei fiumi, il Serchio o la Magra, nell’ambito della nostra terra conchiuse la sua operosità poetica.
Maurizio Pellegrini – pur non essendo stato un poeta universale, pur non avendo fatta la fortuna di nessun editore, nè provocate polemiche, nè spezzata l’ala nemmeno a una mosca, pur essendo vissuto solitario come un fior di selva, posto da Dio su una spiaggia di pescatori – si ebbe la lode di Giosuè Carducci ai tempi che l’«Apuano» rugghiava ai trafficanti della poesia:
«Ella, nell’arte del verso, mi pare che vada sempre avanzando nel meglio; nell’ultimo volume sono cose veramente belle».

Pel vecchio orto passeggio accanto al fico
e i pergolati, mentre azzurro tace
settembre mite dalle bianche nubi.

Cantava, così verso il ’70, indugiando nel solitario orto della sua casetta, Maurizio Pellegrini, quando scorse, alla finestra della casa dirimpetto, un nobile signore assorto nella contemplazione del mare. Questi era Francesco De Sanctis, che forse pensava alla composizione del «Saggio» sul Parini. Ma il De Sanctis, lontano dai suoi volumi prediletti, forse non avrebbe scritto lo storico «Saggio» se il Pellegrini, che nel frattempo aveva stabilito cordiali rapporti con lui, non gli avesse messo a disposizione la sua biblioteca. Anche Francesco De Sanctis, in compagnia di Maurizio Pellegrini e del sindaco di Viareggio d’allora, Odoardo Arrighi, un impetuoso e dotto garibaldino, fece nel 1870 un’ottobrata su questi colli, sostando in Bargecchia Corsanico e a Pieve a Elici.

Viareggio - Velieri nella darsena Toscana - Foto Archivio e Centro Documentario e Storico di Viareggio

Viareggio – Velieri nella darsena Toscana – Foto Archivio e Centro Documentario e Storico di Viareggio

Oltre ai poeti e ai letterati, salgono con ogni veicolo ad ottobrare su questi colli i cantastorie di tutta la Versilia. Oggi sul rettilineo di Montetraito tragittava il cantastorie soprannominato «Vinaccia», il quale, cionco nelle gambe, era seduto su di un carretto a cui aveva aggiogato un ragazzaccio di strada. Vinaccia stringeva nelle salcigne mani il manico di un vasto ombrellone incerato; il quale lo difende dal sole e dalla pioggia. Su ogni stecca egli aveva legato un fiasco vuoto, che dondolava come un palloncino alla veneziana. A chi gli chiedeva dove andasse con quella specie di carretto trionfale, Vinaccia rispondeva:
– Vado a fare un’ombrellata di vino, – e cantava:

Dall’ape verginella piglia effetto,
l’esempio piglia ancor dalla formica
che nel bon tempo non riposa in letto;
sappiti mantenere il tuo terreno;
stai a seminare e a piantare le vigne
che ogni ricchezza dalla terra viene.

– Ma tu stai a giornate sane a bighellonare sull’impietrato dei napoletani, – gli urlò un contadino che zappava la terra.
– È il destinaccio maledetto che mi ha sagrificato.
– Ma ti sei ancorato vicino ai vinacceri, e per questo ti han battezzato «Vinaccia», e quel nome ti copre bene come il tuo ombrello.
– Questi sono i ringraziamenti che dai a uno che ti dà, e gratuitamente, dei buoni consigli, ingrato che altro non sei, – disse Vinaccia, sollecitando il ragazzo a staccare il trotto.

Il contadino aveva ragione. Vinaccia si era accaparrato un posto sul pietrato dello scalo, dove ancoravano le loro barche i vinacceri napoletani, i quali facevano, commercio del vino isolano sui bastimenti, che tramutavano in taverne, e per questo era invidiato da tutti gli altri accattoni, come lui arsionati di vino. Anche gli accattoni avevano cento e una ragione d’invidiare Vinaccia, perché lo scalo dei napoletani poteva dirsi un vero porto di mare: chi andava e chi veniva, chi mesceva e chi beveva, e ognun sa che quando l’uomo è abbeverato di vino diventa di cuore tenero ed è più propenso alla elemosina.

Gli affari di Vinaccia andavano a gonfie vele. Vinaccia si permetteva il lusso delle ottobrate, perchè in quel mese i vinacceri napoletani salpavano le ancore e andavano a celebrare il mese consacrato alla svinatura nelle calanche delle loro isole. Vinaccia poteva allontanarsi senza il pericolo, che altri gli sfruttasse il posto redditizio.

Viareggio - Velieri nella darsena Toscana - Foto Archivio e Centro Documentario e Storico di Viareggio

Viareggio – Velieri nella darsena Toscana – Foto Archivio e Centro Documentario e Storico di Viareggio

Vi fu però un’ottobrata in cui Vinaccia, benchè spargesse gratuitamente, e in versi, dei saggi consigli, si comportò verso se stesso da sconsigliato. Bevve a bocca di barile, e fece bere anche il ragazzo di strada che soleva aggiogare al proprio veicolo, talchè il ragazzo, sopraffatto dal vino, al ritorno, spiccò un trotto tale che, nell’impeto della corsa, fece ruzzolare Vinaccia sul ciglio di una erbosa fossa e non se ne accorse nemmeno dal peso. Il ragazzo, così alleggerito, giunse in un attimo sullo scalo dei napoletani, e il capo prese a girargli come una ruota del veicolo quando s’accorse che Vinaccia era sparito. Allora dette in un dirotto pianto. A qualcuno che gli domandava ragione di tanta disperazione, disse angosciato:
– Ho perso Vinaccia.
– E allora piangi? Non lo sai che lui lì, chi lo perde ride, e chi lo trova piange? E tu vuoi capovolgere il corso delle abitudini? Fai una risata, e bevici sopra.

 

( Lorenzo Viani, Un’ombrellata di vino, tratto da “Il cipresso e la vite” )

 


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