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Luca Romani - Non ho voglia del destino

Creato il 06 dicembre 2014 da Tuttosuilibri @irenepecikar
VI segnaliamo, cari lettori, l'uscita per Leucotea Edizioni del primo romanzo di Luca Romani, poliedrico giovane autore milanese.
Luca RomaniNon ho voglia del destino
Luca Romani - Non ho voglia del destino
Titolo: Non ho voglia del destino Autore: Luca RomaniEditore: Leucotea EdizioniPagine: 138
E se vivessimo sempre la stessa vita ma in luoghi e tempi diversi? Se le nostre azioni e il nostro libero arbitrio ci facessero variare il percorso, ma la strada maestra fosse già tracciata?
Il romanzo narra le vicende di Joyce Conforti, un ragazzo italiano che ritrova in soffitta uno strano manoscritto.
Il manoscritto descrive in forma di diario le vicende di tre uomini vissuti in epoche e tempi diversi - Modou in Uganda durante la dittatura di Idi Amin Dada, Baktash a Teheran negli anni ’50 e Miguel nei primi anni del ‘900 in Messico. Joyce si interessa al manoscritto e, con l’aiuto del suo amico Paolo e del bibliotecario Ennio, comincia a indagare.Inizia, però, ad avere delle allucinazioni, dei flash che lo portano in luoghi in cui non era mai stato, vivendo delle esperienze extra corporee. Quando le visioni si fanno più frequenti e la salute psichica del protagonista inizia a vacillare, decidono di intraprendere un viaggio nei luoghi descritti, un viaggio avventuroso che li porterà ad un passo dalla morte...
“La felicità è la più puttana di tutte”. Questa frase sgrammaticata, sentita dalla bocca di un vecchio ubriacone in un bar la mattina stessa, continuava a roteare nella mente di Joyce.Il trillo fastidioso del campanello fece sussultare il ragazzo che, con passo svogliato, si avvicinò alla porta. Un giovane fattorino latinos, probabilmente da poco maggiorenne, si presentò con una pizza e una lattina di birra, che Joyce aveva da poco ordinato. «Fanno nove euro, Signore.» Disse il ragazzo senza neanche salutare. «Ecco, tieni il resto.» Rispose Joyce, allungando una banconota da dieci euro. Erano le ventidue e quindici minuti. La giornata lavorativa era stata devastante, finalmente un briciolo di tranquillità tra le mura domestiche. Nonostante avesse solo trentadue anni, era riuscito a guadagnarsi un posto di lavoro di tutto rispetto. Milano era una città che offriva, storicamente, molte possibilità nel campo dell’Information Technology, ma come per ogni lavoro, partire da zero non era stato facile. Per un ragazzo orfano di padre era stato ancora più difficile, dopo l’università, farsi strada in un mondo di sciacalli. Era però riuscito a diventare responsabile dei prodotti software di un grosso gruppo di comunicazione. Lo stipendio era buono e finalmente dopo tanta fatica stava vivendo un periodo tranquillo. I problemi sul lavoro erano inevitabili, ma la tranquillità lavorativa e la serenità sentimentale gli rendevano la vita meno difficile.“La felicità è la più puttana di tutte” Ripensò a questa frase. Condivideva pienamente il concetto alla base delle parole dell’ubriacone. Era sereno, ma la felicità cos’era per lui? L’aveva già conosciuta? L’avrebbe mai conosciuta?Joyce era un uomo che pensava molto. Ogni sua azione, ogni sua scelta era dettata dal ragionamento. L’analisi delle situazioni era alla base della sua vita, nel quotidiano. Era un calcolatore. Un calcolatore razionale, per analizzare ogni possibile conseguenza. Questa cosa l’aveva imparata dai computer che, fin da piccolo, avevano avuto un ruolo fondamentale nella sua vita. Gli erano stati amici, alcune volte anche più delle persone. Di contro però non era un automa, i sentimenti per lui erano fondamentali. Le due sfaccettature contrapposte del suo carattere si compensavano. Come lo Yin e lo Yang. Come bene e male. Come la notte e il giorno.“Ognuno è responsabile delle proprie azioni”. Glielo aveva insegnato sua madre e lui, questa frase, l’aveva sempre portata con sé.Girovagando tra questi pensieri diede il primo morso alla pizza, che gli era arrivata un po’ raffreddata dal viaggio in moto con il fattorino. La televisione, accesa in sottofondo, gli faceva compagnia cosicché la sua dimora potesse sembrare meno vuota. La casa pareva un accampamento militare. Due locali, più il bagno. L’affitto era basso ma non si poteva certo dire che fosse una reggia. Certo, la gestione poco ortodossa delle attività domestiche la rendeva ancora più fatiscente.

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