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Lungo le costole di Genova

Da Fabioartigiani
Un diario di mare in tre giorni d'inverno.
GENOVA, 6 DICEMBRE 2009
Su una scaletta piena di nuvole, vedo Genova da sopra. Dal mio bed & breakfast, sovrasta la città un grande etereo macchione grigio che “squilla di luce” i neon della grande banca; e sotto, al pelo del cielo, appoggiate con fermezza le une alle altre a fronteggiare passate e future mareggiate, le case. Gli stucchi dei palazzi più sontuosi guardano arrivare dal mare stive cariche di ricchezze. E sotto, nelle penombre create dai muri domestici, larghe quanto basta per far passare il vento necessario alla stagione, un alveare non geometrico di fumi e colori, occhi d’avorio ed accenti di flauto e corni d’Africa, per me rimembranze di posti mai conosciuti, viventi ora in quella zuppa di gente che è Genova, rigorosamente guarnita da un cappello di basilico DOP di Pra.
Un ristorante peruviano rintanato tra i vicoli riempie a basso costo le nostre pance (siamo in due), teletrasportandoci tra le Ande per un’oretta. Per il resto della giornata la cultura ci assorbe, tra il Bauhaus di Otto Hofmann, lo stile inconfondibile degli scatti di Cartier-Bresson, il mercatino di antiquariato antistante ed una bottega volante del commercio equo e solidale, appollaiata là in mezzo.
La notte arriva, dopo un cinemino improvvisato, e ci arrotoliamo nella nostra camera Ikea.
GENOVA, 7 DICEMBRE 2009
Dai tetti grigi la pioggia cade verso la nebbia. La foschia e l’umido scivolano sulle pietre levigate del pavé, lasciando la città a dormirsi questo lunedì strano, tra due feste, con il lavoro, senza il lavoro. Serrande su, serrande giù, turni in catena, fatiche a catena. E i turisti ignari, pochi, passano sotto gli occhi divertiti di taluni indiani, portoricani e maghrebini di Sottoripa, come a dire: “siamo noi i padroni della città, non l’hai ancora capito?”. Dalla miseria, dopo dure sopportazioni, hanno scalato l’agognato successo fino alla partita I.V.A.: della loro cultura originaria pare sia rimasto poco più di qualche colorato cibo speziato da scongelare. Chi comanda davvero, però, è racchiuso nei palazzi che in ogni parte della città si ergono imponenti e vanagloriosi (ce n’è uno che sembra una diga: fate un giro con l’autobus 33).
Argani mostruosi ed aggraziati come fenicotteri allungano i loro colli sul mare freddo, seminascosti dal fumé bianco che zittisce oggi la mattina. Spero che, anche se con fatica, questa città forzatamente si risvegli. Noi andremo comunque, come un fastidio sulla schiena, come coppe alla pioggia, sotto plastiche sapienti malamente riparati, ad ignudare al freddo i miracoli d’architettura e vissuti quotidiani, così, per dispetto, per presunzione, per assaggiare bulimicamente questo meraviglioso pezzo di mondo.
L’acqua ci accompagna per l’intera giornata, con una costanza sospettata di tortura cinese. Dal catino rumoroso di Campopisano, i piedi non ancora molli ci dirigono al Porto Antico. Il Bigo di Renzo Piano se ne sta lì come un cosmopolita in un campo di bietole, circondato dalle file per l’Acquario, uno pseudo piccolo mondo tropicale dentro una bolla sporca e vetrosa, un centro commerciale a forma di nave ed una strada che sbalorditivamente passa di lì, sopraelevata. E proprio quest’ultima spezza le reni al luogo, lo squarta in due, divorzia di prepotenza l’anima del mare dai muscoli del porto. Ma Genova è così: ti chiede costante fatica per vedere le onde, il mare si nasconde sempre almeno un po’ dietro capannoni, grattacieli, mercanzie cinesi.
Solo dopo il polo fieristico, volando verso i respiri di Boccadasse, ci si rilassa le pupille col lungomare da passeggio. Il piccolo borgo marinaro, cugino delle Cinque Terre e dominato da Rocca Tirrena (castello privato), è come spento: sicuramente è l’inverno.
Ma la magia a Genova si nasconde nel mistero dei vicoli a caso. Penso ci sia una regia che sposta le persone, uno sceneggiatore ispirato per i nomi delle vie, uno scenografo arabo di gusti gotici, un tecnico delle luci al risparmio. E ti senti attore, protagonista del tuo vagare, col solo scopo del gusto di ritrovarti alla fine, piacevolmente, al punto di partenza.
Via del Campo: il negozio di dischi del sig. Fassio, meta obbligata dei cultori dell’opera di Fabrizio De André, sta morendo. A più di un decennio dalla scomparsa dell’artista, se ne va questa sorta di reliquiario, rilassante, una specie di micro parco divertimenti per bambini deandreiani. Il vecchio proprietario non c’è più: “Possibile che non esista un appassionato che voglia rilevare l’attività?” mi domando incredulo. ‘Svendita totale per cessazione attività’, una pugnalata, un mito che se ne va.
L’affascinante Mercato d’Oriente, che evoca promesse di novità esotiche vendute da mercanti di tutto il mondo, è forse l’unico nucleo commerciale di generi alimentari freschi che abbia solo esercenti italiani: un bizzarro scherzo per turisti.
GENOVA, 8 DICEMBRE 2009
Oggi il mare è finalmente blu. Oggi è festa. Andiamo subito al Castello D’Albertis, arrampicandoci con uno strano ascensore nelle budella collinari di Montegalletto. Il museo gronda amore per tutto ciò che non è scontato, per i popoli lontani, per il loro esistere, per il loro arricchire. Oggetti e speranze da tutto il pianeta fanno bella mostra di sé, portati come scalpi a Genova dal Capitano Enrico Alberto D’Albertis, globetrotter per affinità spirituale col viaggiare. La nobile residenza è ora un intelligente spazio espositivo con indovinate mostre temporanee.
Trofie al pesto, acciughe fritte, buridda di seppie, sacripantino al cacao: non ci facciamo mancare niente, in un ristorantino al buio, specialità tipiche genovesi, arredo marinaresco antico, foto d’epoca e saluti d’autore siglati a pennarello sui tovaglioli, recente gestione cinese.
Camminata bestiale tra gli intrighi degli scheletri portuali di ferro e cemento vecchio, dimenticati tra lucenti shopping center e terminal crociere. E la Lanterna si fa più vicina, signora che staglia la sua eleganza, ancora più marcatamente di fronte alla centrale termica ai suoi piedi, alle rotaie portuali che la cingono, ai containers che la difendono. Spingersi su per gli scalini, ti fa conquistare la migliore cartolina di Genova, un’immagine che è sintesi di sé stessa.
Il groviglio a macramè di Soziglia ci lascia disorientati, sensazione che spesso e con piacere investe le anime turistiche di passaggio; schiaffeggiati dai richiami dei mercanti, cambiamo direzione ad ogni sonoro. Le ombre accompagnano il nostro ciondolare verso la bocca della stazione Principe, che ci accoglie tra le sue fauci, inghiottendoci nel buio. Il calore ammorbante dell’Intercity culla i nostri occhi socchiusi, trasportando i corpi a destinazione.
Amo Genova, ed oggi la amiamo in due, in famiglia. Tanto mondo ci vive, una città che accoglie, ti porta tra sé e i propri amori, in primis il mare, poi il commercio e il lavorare faticoso, il cibo e il vino, lo spirito e la passione, i pesci.
Andateci, a Genova, disponendo la vostra anima al mondo, possibilmente.

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