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Ma il divertimento dov’è?

Creato il 16 settembre 2014 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Lo ammetto. Io La parte divertente l’ho acquistato, traviata in parte da uno dei miei due librai di riferimento, per una ragione tremendamente banale e superficiale: la copertina. Negli ultimi tempi, sono usciti moltissimi libri che ritraggono teschi e nere signore incappucciate nella primissima pagina, ma in questo Lipsyte edito da minimum fax si va oltre. Perché non è l’elemento “paura” a essere messo in evidenza dall’immagine della Signora Morte che guida un trattorino (che cosa poco femminile, però!), quanto piuttosto una quotidianità bislacca, che all’improvviso può decidere d’essersi annoiata mentre attraversiamo la strada, saliamo le scale, inciampiamo nel prato. E lei è lì, pronta col suo trattorino.

Allora ho acquistato La parte divertente grazie all’immagine di copertina, a un libraio un po furbo e al claim dal Los Angeles Times che lì sopra è riportato: «Uno dei migliori scrittori satirici d’America». «Bene!» mi dico, «si parlerà di morte. E lo si farà sorridendo». La disillusione è arrivata pagina dopo pagina, un racconto via l’altro. Allora mi sono detta: «Mai fidarsi delle copertine». La morte c’è, a tratti, ma è solo uno sfondo. Un attore non protagonista. Manco candidato a ricevere l’Oscar. Fa le sue comparsate. I suoi occhiolini. E poi si dilegua in un’infinita trama di disfatte che è il suo opposto (o il suo completamento, dipende dai punti di vista): la vita o forse la non vita da vivi. Perché molti dei personaggi narrati a me sembrano un po’ degli zombie, delle persone che in realtà non stanno vivendo ma solo annaspando. E in questo allora siamo a tema.

Ph Hugh-Kretschmer

Ph Hugh-Kretschmer

Appurato che la morte non sia preponderante, mi aspetto comunque di leggere pagine di grande ironia, degne di un certo Roth o di Auslander (che però oltreché essere americani sono pure ebrei. E non so se Lipsyte lo è). E mente leggo mi dico che forse no, forse non mi ritrovo neppure nell’analisi fatta dal Guardian, per dirne uno, o dal New York Times, le cui recensioni vanno costantemente lette e approfondite. La vita di Tovah, una maestra d’asilo part-time, single, senza figli e sottoposta alla corte serrata (e molto poco cavalleresca del signor “Ben Duro”); i ricordi non ricordi di Mandy, sopravvissuto ai campi di concentramento; Gal, che ha visto a ripetizione Schindler’s List e porta sul corpo tatuaggi inneggianti al nazismo (il che mi dice che forse pure Sam(uel) Lipsyte ha origini ebraiche (ma sto col dubbio, senza verificare). Queste e tutte le altre storie presenti io faccio fatica a trovarci dentro della satira, dell’ironia. Faccio fatica ad appossionarmici davvero.

Ph. Hugh Kretschmer

Ph. Hugh Kretschmer

Eppure, alla fine, superata la delusione per l’assenza della nera signora e provando a fatica ad adagiarmi nell’umorismo di Lipsyte è proprio su una frase inerente alla morte, o meglio al lutto, che mi concentro. «Poi mia madre morì. Fu tremendo, per tutti i motivi che sapreste bene anche voi se vi fosse morta la madre (ammesso che non fosse una persona schifosa). Ma poi mi venne un pensiero crudele, come un macroscopico drone omicida che l’Agenzia per la sicurezza nazionale mi aveva inserito in testa tramite il condotto uditivo. Me lo vedevo che planava e sparava un’idea raggelante in quel calderone ribollente di immaginazione comunemente noto come la mente o il cervello umano: e se il mio lutto per mia madre, suggeriva quell’esplosione di pensieri, non fosse stato autentico ma, senza rendermene conto, io lo stessi simulando? Non con l’intento di salvare le apparenze, ma di mantenere la salute mentale. E se fossi riuscito a indurmi con l’inganno a provare e vivere le emozioni normali di una persona normale colpita da un lutto per evitare di accorgermi che ero un mostro senza cuore, lasciato indifferente dalla morte di sua madre?».

Ecco. Questa domanda mi fa fermare. Mi fa riflettere. Sull’autenticità del dolore, ma anche sull’opportunità di un sorriso. A un funerale, forse prima a beneficio di noi stessi che degli altri, pensiamo davvero che mostrarsi addolorati e contriti sia l’unico modo d’esserci? Ma perché non proviamo a essere più indulgenti con noi e con gli altri? A non piangere, se non ci riusciamo, o addirittura a sorridere, salutando un qualcuno che abbiamo amato moltissimo e che ritroveremo nell’aldilà, se un di là esiste. Questa frase di Lipsyte mi fa pensare al fatto che, se anche vogliamo regalare un sorriso a una madre che non abbiamo più – perché magari va a sapere, in quel momento, fra i motivi che hai per amarla te la ricordi in vestaglia di prima mattina mentre sta già cucinando carni in umido per pranzo (e non puoi che sorridere di gusto) – forse possiamo farlo, o addirittura dobbiamo farlo, senza sentirci in difetto con gli altri e men che meno con noi stessi.

E soprattutto se muore un anziano, un vecchio, sorridere dovrebbe esserci un po’ più semplice, forse perché l’anziano o il vecchio la loro vita l’hanno ampiamente vissuta.
Ecco. Io in Lipsyte non ho trovato nulla di quel che cercavo. Non un libro sulla morte né il sarcasmo che mi piace frequentare. Ma una riflessione interessante, che presuppone una molteplicità di punti di vista e opinioni. Per chi piangiamo? E dobbiamo soltanto piangere? Oppure c’è un margine per fare anche dell’altro? Oggi un amico mi ha mandato la foto del funerale di una signora. La foto ritrae un biglietto e una scatola contenente dei baci Perugina. Sul biglietto sta scritto: «Valeria ringrazierebbe la vostra partecipazione con un sorriso ed un cioccolatino». Valeria ci offre un cioccolatino. E ci regala un sorriso. Dovremmo sorriderle di rimando.

di Silvia Ceriani

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Sam Lipsyte
La parte divertente
Minimum fax, 2014
Traduzione di Anna Mioni

Il nuovo libro di Sam Lipsyte è una «sublime baraonda» (così l’entusiastica recensione di Ben Fountain sul New York Times) «che si muove abilmente sul confine fra ilarità e pathos». In questi racconti caustici, irriverenti, esilaranti, l’autore descrive il lato più grottesco di una middle class piena di velleità intellettuali e di ambizioni di successo ma che inciampa costantemente nella propria mediocrità. Un buono a nulla con molta inventiva cerca di sbarcare il lunario spacciandosi per balia alle neomamme chic di Brooklyn; un ragazzino scatena il proprio sadismo nelle partite di Dungeons & Dragons; la figlia di un sopravvissuto all’Olocausto si innamora di un giovane coperto di tatuaggi neonazisti; un ex tossico che ha scalato le classifiche dei bestseller grazie al suo memoir a tinte forti scopre di avere perso il favore dei lettori. L’umorismo implacabile e sovversivo di Lipsyte, unito al suo stile pirotecnico, ne fanno a detta unanime dei critici una delle migliori voci della narrativa americana contemporanea.


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