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“Magie dell’India”: una mostra imperdibile, a Treviso per 7 mesi

Creato il 20 ottobre 2013 da Milleorienti
Rama, Sita e Lakshmana in esilio, 1810-15, miniatura stile kangra, Rajasthan, India settentrionale.

Rama, Sita e Lakshmana in esilio, 1810-15, miniatura stile kangra, Rajasthan, India settentrionale.

Magie dell’India: dal tempio alla corte, capolavori dell’arte indiana, è il titolo della grande mostra che rimarrà aperta a Treviso (Casa dei Carraresi) dal 26 ottobre 2013 al 31 maggio 2014: ci sono dunque ben sette mesi di tempo per visitarla. Qui sotto trovate due testi (oltre ad alcune immagini): il primo testo spiega il percorso espositivo della mostra; il secondo è  dell’indologa  Marilia Albanese,  curatrice della mostra insieme a Renzo Freschi e Adriano Màdaro, e spiega il senso dell’esposizione. Ve ne anticipo qui un breve estratto: «Non sono mancate in Italia, dal dopoguerra a oggi, mostre di grande spessore e fascino su diversi aspetti della cultura dell’India, ma non era ancora stata allestita un’esibizione che spaziasse dalle origini ai giorni nostri, raccogliendo reperti di diversa provenienza e “osando” accostare sacro e profano. Queste due aree, tuttavia, nel sub-continente indiano trascolorano l’una nell’altra, poiché la loro opposizione è più apparente che reale, visto il costante anelito della plurimillenaria cultura dell’India a riconciliare, unificare e trascendere le polarità dell’essere».
Buona lettura dunque, e buona visita! M.R.

1) IL PERCORSO ESPOSITIVO DELLA MOSTRA

Il percorso espositivo della mostra si articola in due parti: L’ARTE NELL’INDIA CLASSICA e L’INDIA DEI MAHARAJA, che hanno come centro focale rispettivamente il tempio e la corte. I due poli – sacro e profano – solo apparentemente sono in opposizione. Il cerimoniale dei templi è simile a quello del palazzo e la figura del re è ammantata di sacralità tanto da renderla divina. La saggezza tradizionale indiana, affinché l’esistenza umana sia significativa e armonica, impone l’impegno etico, ma anche il perseguimento del piacere; sostiene la frugalità, ma non svalorizza la ricchezza; incita al distacco, ma legittima la conquista del potere. I bisogni e gli allettamenti materiali sono presi in considerazione quanto i desideri e le aspirazioni spirituali. Benché il fine ultimo in buona parte della cultura indiana – ma non in tutta! – sia la liberazione e il trascendimento del mondo doloroso e finito, la vita e i suoi istanti preziosi sono ampiamente celebrati, soprattutto nell’arte.

La prima parte della mostra illustra alcuni temi fondamentali della cultura indiana e include sculture e altorilievi in pietra, immagini di bronzo e oggetti rituali provenienti dall’ambito religioso, corredati da miniature di soggetto affine, coprendo un arco di tempo che va dal II millennio a.C fino al XVII sec.

LE SETTE RELIGIONI INDIANE

Dopo la prima sala dedicata alle Religioni dell’India: Hinduismo, Buddhismo, Jainismo e Sikhismo (autoctone); la religione dei Parsi, Cristianesimo e Islam (importate), si incontrano due sale sui miti e le grandi epopee, che raccontano le storie divine e in modo particolare il “Ramayana” e il “Mahabharata”. Nella visione mitica hindu l’esistenza scaturisce dall’interazione delle forze polari, rappresentate dagli dei e dai demoni in perenne contesa: la negatività è indispensabile all’esistenza quanto la positività. Il conflitto rimane la base della vita e la Provvidenza interviene solo per ripristinare l’equilibrio compromesso dal prevalere della parte demoniaca. La partita fra le forze del bene e quelle del male si gioca sulla terra ove dei e demoni si incarnano sotto spoglie umane o procreano eroi. Il “Mahabharata”  – circa 110.000 strofe divise in 18 libri – e il “Ramayana” – le “Gesta di Rama”, fu composto fra il II sec. a.C. e il II sec. d.C. in 24.000 versi dal poeta Valmiki, – le due grandi epopee composte in un lungo arco di tempo fra il IV sec. a.C. e il IV sec. d.C., hanno costituito un veicolo ottimale per divulgare idee religiose, morali e sociali e sono state la principale fonte di ispirazione per l’iconografia indiana.

Sala 4. Si continua con la sala dedicata ai rapporti tra India e Grecia, che hanno prodotto la singolare  arte greco-buddhista del Gandhara.

Maitreya, Buddha del futuro, II-III sec.d C. Scisto, regione del Gandhara.

Maitreya, Buddha del futuro, II-III sec.d C. Scisto, regione del Gandhara.

La straordinaria ricchezza del pantheon hindu si dipana nelle cinque sale in onore degli dei dell’India: la Dea, Shiva, Vishnu e le sue incarnazioni provvidenziali sulla terra, Krishna.

SHIVA (Sala 5) Divinità complessa e ambigua, Shiva era già noto nel secondo millennio avanti la nostra era come Rudra, “Colui che urla”, signore della tempesta armato di tuono e saetta. Imperversava nell’intrico della foresta scagliando frecce portatrici di malattie su armenti ed esseri umani, essendone pur tuttavia al tempo stesso il protettore e il guaritore. Per proteggersi, i veggenti impiegarono il sacro potere della parola e lo venerarono con il nome di Shiva, il “Fausto”, vincolandolo così ad atteggiamenti più benevoli. L’originario aspetto selvaggio permane comunque in molte sue forme terribili, ugra, come quella di Virabhadra, personificazione della collera del dio.

LA DEA (Sala 6) L’archetipo del femminile trova nell’immagine indiana della Grande Dea, la Devi, una delle sue più potenti e polimorfe rappresentazioni. Signora della Vita e della Morte, proiezione del dinamismo cosmico e dell’energia di trasformazione che incessantemente origina e dissolve l’universo, è al tempo stesso divinità terribile e madre amorevole e adombra le contraddizioni dell’esistenza che eternamente riproduce se stessa. Tra le sue molteplici funzioni se ne delineano due fondamentali: la conservazione della vita, espletata nel generare e nel nutrire e rappresentata nelle immagini rassicuranti e composte della Dea, le cui forme opulente rimandano alla fertilità; la trasformazione dell’esistenza, attuata dal potere dinamico della sessualità e della violenza, che distrugge per ricreare e che si estrinseca nelle forme scomposte e terrificanti della Devi. Nel corso dei secoli la funzione generativa e nutritiva continuò a essere oggetto di venerazione mentre il potenziale sessuale e aggressivo cominciò ad apparire come temibile per la sua imprevedibilità e incontenibilità, per cui la libertà della Dea, e di conseguenza quella della donna, furono progressivamente limitate fino a scomparire.

KRISHNA (Sala 7) Dio infante e Signore assoluto, amante bellissimo e invincibile guerriero, fonte di Verità e consigliere ambiguo, Krishna richiede ai fedeli il coraggio di rinunciare a tutto per darsi a lui senza riserve, con assoluta devozione, bhakti. La melodia del suo flauto ammalia le pastorelle, metafora dell’attrazione che Dio esercita sulle anime: come un gioco, lila, eternamente la gioia divina trabocca nelle forme dell’essere, invitando le creature a lasciarsi coinvolgere nella danza della vita. Krishna, il “Nero” che deve l’incarnato scuro come la notte fonda all’essere nato da un capello corvino di Vishnu, nasce a Mathura da Devaki e Vasudeva del clan degli Yadava e viene scambiato con la figlia dei pastori Yashoda e Nanda per salvarlo dal demoniaco zio Kamsa, a cui era stata predetta la morte per mano di un figlio della cugina Devaki. Cresciuto a Vrindavana, idillico luogo sull’altra sponda della Yamuna, mostra ben presto il suo essere divino sgominando demoni fin da bambino. Diventato uno splendido adolescente, di lui s’innamorano le pastorelle, le gopi, con le quali il dio intreccia sottili giochi erotici; la preferita è Radha, che per amore del dio abbandona la propria casa e lo sposo.

VISHNU (Sale 8-9) Divinità secondaria di origine solare in epoca più antica, Vishnu diviene progressivamente sempre più importante, fino ad assumere posizione centrale nei grandi poemi epici ed essere principale figura di devozione nell’Hinduismo. Seconda immagine della Trimurti, il dio espleta la funzione di custode della vita e si manifesta sulla terra in svariate discese provvidenziali chiamate avatara: le due più importanti sono Rama e Krishna. Vishnu, connotato dall’incarnato blu e dalla veste color oro, ha quattro braccia e regge nelle mani i quattro oggetti che lo contraddistinguono: la conchiglia, il disco, la mazza e il fiore di loto. La conchiglia, che rimanda alla vita generata e nutrita nel grembo delle acque primordiali; il disco, usato come boomerang per decapitare gli avversari, simboleggia la luce del sole e della conoscenza; la mazza è scettro e bastone e sottolinea la funzione di guida e giudice tipica del sovrano, di cui Vishnu è il massimo prototipo. Il fiore di loto rappresenta l’armonica bellezza del mondo e la benevolenza divina, nonché il realizzarsi del cammino spirituale: dal fango dello stagno il fiore distende le foglie sul pelo dell’acqua e schiude la corolla alla luce del sole, così come l’anima, elevandosi dalle pastoie materiali, s’innalza verso il regno dello spirito.

Le successive tre Sale del percorso (Sala 10, Sala 11 e Sala 12) si soffermano sulla rappresentazione del corpo umano, maschile e femminile, e sull’arte erotica.

IL CORPO MASCHILE. La scultura indiana rappresenta gli innumerevoli aspetti del Divino in fattezze umane. Frutto di visione interiore evocata attraverso la purificazione, il controllo dei sensi, la concentrazione e la meditazione, è realizzata secondo precise norme fissate in numerosi trattati, gli shastra. L’immagine, nella quasi totalità dei casi a figura intera, non è realistica, ma allusiva: una serie di suggestioni sapientemente indotte evoca la presenza degli dei e la dimensione ultraterrena. Eternamente giovani, le espressioni distaccate e impersonali e i visi appena atteggiati a un sorriso interiore, irradiano lunare serenità. L’interesse per l’anatomia è assente, le membra carnose sono lisce e perfette, senza traccia di ossa o tendini, e il prana, l’energia vitale che le pervade, le gonfia arrotondandole. Le posture del corpo e delle mani, rigorosamente codificate, evocano un preciso stato emotivo, sottolineato anche dall’uso del colore, per lo più oggi svanito. In genere la figura maschile deve avere il collo tornito come una conchiglia, il torace a forma di testa di toro, la vita stretta e le braccia simili alla proboscide d’elefante. Un drappo di stoffa attorno al bacino è tenuto fermo da complicate cinture e il corpo è ornato da numerosi gioielli. Le proporzioni della figura, il cui centro è l’ombelico, sono scandite distribuendo i volumi lungo segmenti verticali e orizzontali, il più importante dei quali è l’asse mediano che corre lungo la colonna vertebrale, sorta di pilastro che sorregge il corpo e lo divide simmetricamente.

IL CORPO FEMMINILE. In epoca remota la donna era considerata l’immagine terrena della Grande Dea generatrice di ogni forma

Una regina si asciuga i capelli dopo il bagno. Miniatura indiana del 1644

Una regina si asciuga i capelli dopo il bagno. Miniatura indiana del 1644

vitale e il segreto che circondava i riti della nascita aveva consolidato nell’uomo – ignaro del suo ruolo nella procreazione – il convincimento che il femminile disponesse di poteri immensi, tra cui quello fondamentale di perpetuare l’esistenza. Le prime rappresentazioni del Divino furono dunque al femminile e anche in ambito indiano le raffigurazioni più antiche sono quelle della Grande Madre. Di conseguenza l’importanza sociale e religiosa della donna era notevole: in India prima del VI sec a.C. poteva disquisire con gli uomini di questioni metafisiche, possedeva beni suoi e aveva voce in capitolo in merito al matrimonio. Soprattutto era indispensabile compagna nell’esecuzione dei riti più importanti, la cui efficacia era garantita dalla compartecipazione degli sposi. Purtroppo nel corso dei secoli lo status e la libertà della donna si contrassero al punto tale da precluderle la realizzazione spirituale: un’esistenza condotta in piena sottomissione le avrebbe al massimo meritato una successiva incarnazione come uomo, l’unico ad avere la possibilità di frangere il cerchio delle rinascite e attingere la liberazione. Il potere del femminile rimane comunque uno degli elementi sotterranei più forti della cultura indiana. La figura opulenta e avvolgente segna l’immaginifico maschile fin dalle origini e ispira alcune delle più sensuali rappresentazioni scultoree, le yakshi, ninfe arboree che evocano voluttà con la morbida curvatura delle membra e i corpi pieni, dai seni pesanti e le anche tonde.

L’INDIA DEI MAHARAJA (Sala 13).

Con la Sala 13 si entra in quell’India che più ha colpito l’immaginario europeo: L’INDIA DEI MAHARAJA. Il mondo delle corti opulente e dei sovrani ricchissimi ed eccentrici è qui ricostruito attraverso i colori brillanti dei dipinti e delle miniature d’epoca e reso tangibile dai sontuosi costumi, dagli splendidi gioielli, dalle armi raffinate e dagli oggetti preziosi. Sette sale illustrano i fasti di un’epoca grandiosa, avvalendosi anche di una serie di fotografie di fine Ottocento/inizi Novecento, suggestive testimonianze di un tempo che fu. I maharaja più famosi provenivano in gran parte dal Rajasthan, teatro di una splendida civiltà cavalleresca che ebbe come protagonisti i Rajput, i figli di re, rajaputra, probabilmente originari delle steppe dell’Asia centrale e stanziatisi dall’VIII sec. in poi nelle zone nord-occidentali attorno al deserto del Thar. Divisi in vari clan, costituirono una serie di regni in perenne conflitto, organizzati feudalmente: il re assegnava le terre a parenti e a quanti gli erano devoti elevandoli al rango di feudatari, thakur, e demandando loro ogni potere. Unico obbligo dei thakur era il versamento di tributi e il rifornimento di contingenti militari in guerra. Ciascuna dinastia regnante faceva risalire le proprie origini a personaggi divini: Rama, incarnazione del dio Vishnu e prototipo ideale del sovrano, era il capostipite della stirpe solare, suryavamsha, mentre Krishna lo era di quella lunare, candravamsha. Altre casate appartenevano alla famiglia del fuoco, agnikula, ritualmente nata sul Monte Abu durante il grandioso rito celebrato nel 747 dai brahmani per includere i Rajput tra i guerrieri, kshatriya, seconda casta indiana. Malgrado l’inserimento nell’orbita della cultura brahmanica, i Rajput conservarono alcuni costumi estranei all’India, come l’infanticidio femminile, l’uso e l’abuso di oppio, l’assunzione di ogni tipo di carne ad eccezione di quella bovina, la riunione del consiglio di guerra e il terribile suicidio collettivo, jauhar, in caso di disfatta militare, che imponeva alle donne e ai fanciulli di gettarsi nel fuoco e agli uomini d’incontrare la morte sul campo. Abilissimi guerrieri a cavallo, i Rajput ispirarono la loro esistenza a un complicato codice cavalleresco fondato sull’onore e la gloria, pratap e kirti, che solo la battaglia poteva conferire. La loro fama, giustamente meritata da tante azioni coraggiose, venne resa leggendaria dai numerosi poemi bardici che fiorirono in lingua hindi durante il tardo medioevo. Tuttavia fu proprio questa etica del combattimento a causare l’immobilismo dell’esercito che, unito al particolarismo dei clan, causò la sconfitta rajput da parte dei musulmani. L’avvento degli Inglesi, la soppressione dell’impero moghul e la conquista di estesi territori ridussero progressivamente l’autonomia e il potere dei maharaja. Alcuni si ripiegarono sul passato, arroccandosi nella tradizione, altri si aprirono al nuovo assumendo modalità di vita occidentali. Tutti, comunque, continuarono a vivere con fasto e splendore per onorare l’antica regalità sacrale di cui erano eredi.

Gonna da matrimonio in seta rossa e oro, tipica delle donne hindu del Rajasthan

Gonna da matrimonio in seta e oro, tipica delle donne hindu del Rajasthan

In questa affascinante sezione sono esposti preziosissimi reperti che raccontano la vita dei Maharaja e le dimore nelle quali vivevano, arredate con stuoie, tende e tramezzi in stoffa che separavano e completavano gli ambienti, i cui pavimenti erano coperti da splendidi tappeti. Le pareti dei locali erano traforate da nicchie, elemento ornamentale di grande pregio, che ospitavano lampade, vasi, ampolle con piattino e vassoi di frutta. Il mobile dominante era il divano-letto, passato indenne attraverso i secoli, fulcro della vita domestica, fosse quella di una corte o di una capanna.  Attorno al divano-letto con bassa spalliera e cuscini cilindrici di appoggio vi erano specchi, ventagli, scacchiere, huqqa ovvero pipe ad acqua dalle basi elaborate e dai bocchini preziosi, servizi da scrittura, vassoi, cofani, portagioielli, contenitori per il betel – l’involtino da masticare fatto di foglie, noce d’areca e spezie -, brocche, bracieri e bruciaprofumi. Cassoni e cassepanche per riporre abiti e oggetti erano alloggiati in magazzini e guardaroba. L’arredo era scarso ed essenziale anche nella corte finché, volendo emulare i dominatori inglesi, i maharaja cominciarono ad affollare i palazzi di mobili.

LE MINIATURE. I Maharaja furono grandi patroni delle arti, in particolare della pittura, effettuata fin dall’antichità su pareti e su supporto mobile. L’uso della carta introdotto dalla metà del XIV sec. offrì un supporto più duraturo alla pittura a tempera e la produzione di miniature venne incrementata sia nelle corti musulmane che in quelle hindu. La miniatura islamica non fu solo appannaggio della corte moghul: i sultanati del Deccan avevano elaborato uno stile influenzato dalla locale pittura hindu che venne arricchendosi di motivi persiani quando entrarono nella sfera dei Moghul. A quest’ultimi la miniatura rajput deve una serie di elementi che le erano estranei: la ritrattistica, la rappresentazione di scene di corte e alcuni accorgimenti tecnici che i Moghul avevano appreso dall’Europa: la prospettiva e il chiaroscuro. Nelle collezioni di miniature e dipinti conservati nelle reali pinacoteche, citrashala, temi sacri si alternano ad altri “profani”. Tra le figure divine più rappresentate campeggia Krishna, la cui storia d’amore con Radha, costellata di tradimenti, separazioni e riconciliazioni, si prestava a innumerevoli e coloratissime versioni. La miniatura è associata ad alcune righe di testo che costituiscono una sorta di meditazione, dhyana, sottolineando con questo termine la funzione mistica della musica, della poesia e della pittura. L’unione sapiente di colore, parola e suono realizza la degustazione del “succo”, il rasa, la quintessenza dell’esperienza estetica, frutto di un processo di alchimia spirituale, ove l’assaporare le essenze universali delle emozioni porta oltre la dimensione umana e apre alla salvezza.

LE ARMI. La vita guerriera dei Maharaja è raccontata dalle armi esposte in mostra. Tra i pugnali era molto diffusa una daga a spinta, con la lama triangolare affilata su entrambi i lati, immanicata su due stanghe collegate orizzontalmente dall’impugnatura e assicurate all’avambraccio del combattente. Strumento indispensabile nelle battaglie fino al XVIII sec., furono le cotte di maglia e le armature imbottite, di feltro, di pelle, di cuoio, rinforzate o interamente costituite da piastre o da lamelle in cuoio, corno e metallo L’elmetto era fatto di placche e maglia, con paranaso, puntale e alloggiamento per le piume.

Gioiello da naso in oro, rubini, zaffiri e perle naturali. Rajasthan, inizi XX sec

Gioiello da naso in oro, rubini, zaffiri e perle naturali. Rajasthan, inizi XX sec

I GIOIELLI. Il gioiello è molto di più di un’artistica creazione in oro e pietre preziose: è un talismano, un’insegna di stato sociale, un testimone di avvenimenti importanti ed è ornamento, alamkara, nel senso non di pura decorazione, ma di completamento indispensabile. Molte divinità hanno un loro monile: Vishnu si orna il petto con il kaustubha emerso dal primordiale oceano di latte; il Sole deriva il suo splendore dallo syamantaka… Le gemme hanno giocato un ruolo notevole nelle storie mitiche, dal mani, una sorta di perla dalle magiche capacità protettive, al cintamani, in grado di esaudire ogni desiderio, racchiuso nell’aureo palazzo dell’Isola di Gioiello, manidvipa,  ove ogni cosa è in materiale prezioso. E non era soltanto la terra a nascondere le gemme: nella testa degli elefanti si trovava una perla preziosa, gajamukta, ed anche in alcuni serpenti e nei makara, mitici mostri acquatici. I gioielli indiani più famosi restano comunque quelli della dinastia moghul, casata musulmana regnante in India fra il XVI e il XIX sec., la cui influenza si estese anche alle altre corti principesche indiane. I viaggiatori europei e le miniature descrivono la profusione e lo splendore dei monili: gioielli per i turbanti, ornamenti per la fronte con pendenti e striscia sull’attaccatura dei capelli, orecchini e monili per le orecchie, anelli da naso pendenti dalla cartilagine o a narice collegati all’orecchio, i nath, – che sembrano essere stati portati in India dai musulmani nel XIII sec. -, collane, spille, bracciali e armille, cavigliere, cinture, anelli, amuleti. Per le donne i gioielli determinano ancora oggi lo stato di nubili o coniugate e costituiscono una dote inalienabile mentre l’assenza di ornamenti segna la condizione della vedova.

LE FOTOGRAFIE. I pittori inglesi che nel Settecento percorsero l’India producendo splendidi acquarelli si avvalsero dell’uso della camera oscura portatile, una scatola dotata di una piccola lente convessa tramite cui l’oggetto veniva messo a fuoco su uno specchio inclinato e da lì proiettato su un foglio di carta. L’artista poteva così tracciarne i contorni in maniera veloce e accurata e quindi servirsene come base per realizzare il disegno. L’arte della fotografia si diffuse comunque rapidamente e gli studi fotografici fiorirono e prosperarono ovunque. La Società fotografica di Bombay, fondata nel 1854, nel giro di un anno reclutò duecento membri e aprì sedi a Madras e Calcutta. La Compagnia delle Indie ritenne la fotografia uno strumento strategicamente utile e la conoscenza della sua tecnica venne favorita presso i funzionari e i militari. Nel 1855 s’iniziò la catalogazione fotografica dei monumenti indiani, fornendo una preziosa documentazione per lo studio dell’arte indiana. Anche i maharaja s’interessarono di fotografia. Il primo e più famoso sovrano fotografo fu Sawai Ram Singh II, che dal 1835 al 1880 regnò a Jaipur, dove impiantò uno studio attrezzatissimo, photukhana, e promosse un corso di fotografia. Membro della Società Fotografica Bengalese, ritrasse le donne del suo zenana, offrendo per la prima volta immagini di un universo femminile vissuto fino a quel momento dietro il pardah, la “tenda” che lo separava dal resto del mondo. Con il Novecento la fotografia sostituisce il ritratto, mantenendone però le caratteristiche formali: i sovrani e le loro famiglie appaiono in posa e ieratici. È la ricca borghesia a sembrare più sciolta e naturale mentre la gente del popolo – fotografata per curiosità o studio – non riesce a nascondere un lampo d’inquietudine. Gli studi dispongono di sfondi scenografici e la maggior parte dei ritratti viene effettuata all’interno. Alcune delle lastre esposte sono opera di uno degli studi fotografici più famosi dell’epoca, “Gobindram Oodeyram” di Jaipur. Non manca comunque l’interesse per città, monumenti, luoghi di culto, paesaggi: a poco a poco, grazie alla fotografia, l’India esce dal mondo mitico e comincia a entrare nella storia.

L’ultima tappa è davanti alle testimonianze dei rapporti fra Italia e India, le cui origini risalgono addirittura all’epoca romana, per scoprire quanti italiani – alcuni famosissimi come Marco Polo e Nicolò Manucci – intrapresero la “via delle Indie”. Ed è proprio un viaggio entusiasmante quello che la mostra si propone di offrire ai visitatori, presentando gli aspetti salienti e affascinanti di un Paese dalla cultura plurimillenaria, oggi alla ribalta del mondo.

2) IL SENSO DELLA MOSTRA: TESTO DELLA CO-CURATRICE MARILIA ALBANESE

In Italia l’interesse per l’India dalla seconda metà del Novecento a oggi è andato progressivamente crescendo ed è uscito dal mondo accademico e degli specialisti per diffondersi in maniera sempre più allargata. Accanto ad un’informazione condizionata dalle mode del momento e dagli stereotipi, si sono moltiplicati gli sforzi per fare conoscere in maniera più corretta e profonda la splendida e variegata civiltà indiana e, in primo luogo, la sua arte.

Non sono dunque mancate dal dopo-guerra a oggi mostre di grande spessore e fascino su diversi aspetti della cultura dell’India, ma non era ancora stata allestita un’esibizione che spaziasse dalle origini ai giorni nostri, raccogliendo reperti di diversa provenienza e “osando” accostare sacro e profano. Queste due aree, tuttavia, nel sub-continente indiano trascolorano l’una nell’altra, poiché la loro opposizione è più apparente che reale, visto il costante anelito della plurimillenaria cultura dell’India a riconciliare, unificare e trascendere le polarità dell’essere.

La saggezza tradizionale, affinché l’esistenza umana sia significativa e armonica, impone l’impegno etico, ma anche il perseguimento del piacere; sostiene la frugalità, ma non svalorizza la ricchezza; incita al distacco, ma legittima la conquista del potere. I bisogni e gli allettamenti materiali sono presi in considerazione quanto i desideri e le aspirazioni spirituali. Benché il fine ultimo in buona parte della cultura indiana – ma non in tutta! – sia la liberazione e il trascendimento del mondo doloroso e finito, la vita e i suoi istanti preziosi sono ampiamente celebrati, soprattutto nell’arte.

Un’arte che al primo sguardo appare sensualmente carnale, nelle figure femminili dalle forme opulente e rotonde come un frutto maturo, ma anche nelle rappresentazioni di asceti, i cui corpi plastici non sono per nulla svuotati dai digiuni e dalle ardue prove. Eppure, le immagini fattesi “carne” nella pietra o nel metallo, quando sono opera di un grande artista sembrano sempre in procinto di smaterializzarsi, come se la loro presenza che tanto spazio condensa fosse solo la visione di un attimo evocata dalla fede, un’apparizione momentanea colta dalla maestria artistica sull’orlo del dissolversi nuovamente. Per questo, salvo pochissime eccezioni, tutte le statue sono di divinità.

Il tempio è il luogo delle sacre rappresentazioni: il rito scandisce un tempo fuori dal tempo e il mito disegna uno spazio oltre lo spazio. Il velo illusorio di maya, il misterioso potere che occulta la Realtà ultima, si alza come un sipario e gli dei prendono corpo, non un corpo individuale e individuato, ma un corpo ideale, la perfezione della forma nell’attimo dell’apparizione. I Signori del cielo non hanno volti distinti, bensì simboli che li connotano: il Divino, uno, unico e ineffabile, si proietta in infinite forme, traboccando nella lila, il gioco misterioso che mette in scena e anima l’esistenza.

Se il tempio è il primo grande palcoscenico della cultura dell’India, la corte è l’altro e il protagonista è in questo caso il sovrano. I due poli – sacro e profano – solo apparentemente sono in opposizione. Il cerimoniale dei templi è simile a quello del palazzo, la figura del re è ammantata di sacralità tanto da renderla divina.  Ricca, opulenta e fastosa, a un primo sguardo la corte appare la rappresentazione più terrena e materica della vita. Eppure, a ben guardare, anche in essa vi è la tensione all’immateriale: vesti pesanti intessute d’oro e d’argento, ricoperte di gemme accanto a mussole così leggere da essere impalpabili; armi micidiali trasformate da una delicatissima trama di ricami in agemina, miniature di regali personaggi colti nel massimo della pompa, eppure con sguardi pensosi, persi nell’oltre.

Un continuo rimando tra forma ed essenza, apparire ed essere, materia e spirito che trova la sua massima espressione nell’arte, la via estetica, che offre la degustazione di piaceri sempre più sottili. Per distillarli l’artista trascende il proprio sentire individuale per farsi veicolo di sentimenti universali: allora la rappresentazione e la fruizione della Bellezza divengono cammino  salvifico che porta al di là della materia e del mondo, poiché appieno e fino in fondo se ne è delibato il gusto. Se più nulla resta da esperire, il gioco di maya finisce.


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