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Creato il 07 luglio 2014 da Francosenia

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"Ci hanno cancellato dalla mappa." Lo dice Remigio, un esiliato spagnolo ad un suo compagno, ne "El remate", uno dei migliori racconti di Max Aub, pubblicato per la prima volta nel 1961, sulla sua rivista personale, "Sala de Espera (Sala d'attesa)". La frase, riassume tutta la tragedia dell'esilio. L'esiliato viene zittito, ignorato, escluso; e la sua esclusione non è solo territoriale. La "mappa" di cui parla il personaggio di Aub, si riferisce, per sinedddoche, a tutto un processo storico del quale, da un giorno all'altro, l'esiliato smette di partecipare. Per uno scrittore, l'esilio significa essere cancellato dalla mappa culturale: viene provato del suo pubblico, dei suoi lettori, dei periodici e delle riviste e, ovviamente, dal suo posto nella storia della letteratura. In altre parole, gli viene vietata tutta la sfera pubblica, tutto quello spazio dove si costituisce e si sviluppa  l'entità complessa che viene chiamata "comunità nazionale". E' stata questa, forse, la peggior condanna per gli scrittori costretti ad andare in esilio dopo la sconfitta del 1939. Aub, per lo meno, la pensava così.
Eppure Aub fu uno dei pochi scrittori che seppe approfittare della condizione precaria dell'esilio per sviluppare una scrittura originale, sperimentale e allo stesso tempo fortemente impegnata, senza lasciarsi tentare dalla retorica mitizzante e senza cadere nella paralisi creativa che afflisse molti dei suoi compagni esiliati. La condizione "fittizia" dell'esistenza esiliata, gli servì per liberarsi dalla rigida separazione fra finzione e storia, e per lasciarsi andare all'invenzione di "storie parallele", storie impossibili rispetto alla storia reale. Una sorta di risposta allo "scherzo", giocato dalla vera storia all'utopia della Seconda Repubblica spagnola.
Remigio Morales Ortega, il protagonista di "El remate", è uno scrittore esiliato in Messico dal 1939, che è riuscito a risparmiare denaro sufficiente per "dare uno sguardo" alla Francia e andare a visitare un suo vecchio amico lì esiliato, a Cahors. Quest'amico, la voce narrante del racconto, si è da tempo rassegnato all'esilio, si è sposato con una francese, i suoi figli parlano appena lo spagnolo. Remigio, diversamente, non ha perso la speranza di poter tornare in Spagna, né tanto meno è riuscito ad accettare l'esilio come se fosse una realtà definitiva; prima della guerra era già sposato e quando è andato in esilio ha lasciato in Spagna moglie e figli. Una volta arrivato in Europa, convince il figlio - che non vede da vent'anni - ad incontrarsi con lui in un posto di confine (ovviamente, è inconcepibile che possa entrare in Spagna). L'incontro è una grande delusione. Il figlio, con cui doveva incontrarsi a Perpignan, non lo ha nemmeno riconosciuto. Remigio si rende conto della terribile realtà, e la confronta con l'oblio imposto dal franchismo alla società spagnola: "No" - dice Remigio al narratore - "non siamo niente, e nessuno sa niente di quel che siamo stati". E' questo il suo problema, le opere di uno scrittore esiliato non lasciano traccia. L'esilio si converte in una sorta di dilemma esistenziale dove la vita diventa falsa, fittizia, una vita in cui si confondono i confini fra storia e finzione. Il dilemma viene espresso da Remigio in termini quasi borgesiani: "se fossimo perfetti, e a somiglianza di Dio, saremmo due in uno. Uno, quel che siamo, l'altro, quello che dovremmo essere ... Il Remigio che a Madrid ha sofferto quel che ha sofferto, è lo stesso di questo Remigio americano che può fare più o meno quel che vuole?" Lo tormenta il dubbio: come sarebbe stata la sua vita se fosse rimasto?
Per Remigio, il dubbio, la coscienza di un'esistenza fittizia, diverrà insopportabile e finirà per portarlo al suicidio; mentre la voce narrante del racconto si salverà in virtù di un atteggiamento di rassegnazione. Max Aub, invece, segue un percorso diverso. Non si rassegna, alla fine degli anni 1960, la sua rabbia era fresca come negli anni 1940. Quando visita la Spagna, nel 1969, confessa di essere ancora consumato dalla "furia di un amore per un passato che non fu, e per un futuro impossibile". Allo stesso tempo, Aub riuscì ad essere uno dei pochi autori in esilio che riuscì a trasformare questa furia in energia creativa.
Dentro i suoi esperimenti storico-letterari, c'è un gruppo di testi che partono proprio dalla domanda di Remigio: cosa sarebbe accaduto se il corso della storia avesse preso un altro sentiero? Tornando ai sentieri di Borges, si può dire che in questi testi Aub evita l'impasse dell'esilio, ma anziché incamminarsi lungo la strada principale della storia, prende un altro sentiero, uno di quelli che, in retrospettiva, sono stati condannati ad un'eterna esistenza ipotetica. L'effetto di una simile strategia è sempre sconvolgente: mostrare quello che avrebbe potuto essere. E in questo modo, Aub condanna, critica e si rammarica di quello che è stato. Scrive, per esempio, quello che sarebbe stato il suo discorso di ringraziamento alla Real Academia de la Lengua, se la Repubblica avesse vinto la guerra, o se i nazionalisti non si fossero mai sollevati in armi. Fra gli ipotetici accademici che ascoltano questo ipotetico discorso, troviamo tutti i grandi scrittori ed i grandi poeti la cui vita la guerra divise in due. Una sorta di ironia para-storica che confina col sarcasmo, come nel breve testo a proposito "Dei benefici della guerra civile", dove Aub si colloca in una posizione metacronica, o ucronica, fingendo di poter vedere, con precisione, i due sentieri che si biforcano al crocevia dell'anno 1936. Dal suo punto panoramico, Aub fa un bilancio, apparentemente obiettivo, delle due storie - una possibile, l'altra reale - per poi concludere, con sollievo, che la guerra ci ha salvato da molti mali. Dopo aver descritto dettagliatamente i membri di una famiglia, tutti assolutamente orrendi, e tutti uccisi dalla guerra, osserva che: "è curioso riuscire a sapere che se non era per la guerra civile di cui ho parlato, e che sterminò quella famiglia, questa si sarebbe imparentata con la mia. Ignacio si sarebbe sposato con Petra, la mia figlia maggiore, e avrebbero avuto quattro figli, in ordine di età:  Luis, Pedro, Julio e Juanita. Quest'ultima sarebbe diventata una famosa cantante, e avrebbe debuttato al Metropolitan di New York nel 1961 cantando Il Barbiere di Siviglia, la mia opera preferita. Luis starebbe esercitando la professione di medico a Moncófar; Pedro avrebbe un negozio di antiquario in calle de Huertas, a Madrid. Julia starebbe per sposarsi con il figlio del nipote di Indalecio Prieto, che sarebbe stato il presidente della Repubblica nel 1945."
Così, anche "La vera storia della morte di Francisco Franco", il suo racconto più famoso e più antologizzato, parte da un punto di vista ucronico. Il testo racconta la storia del cameriere messicano Nacho Jurado Martínez, che uccide Franco solo per liberarsi degli spagnoli maleducati che invadono il suo caffè e amareggiano la sua vita professionale. Il narratore, alla fine del testo afferma, presentandola come una verità, che questa storia è rimasta nascosta per molto tempo e che solo adesso è venuta alla luce grazie alle sue interviste a Nacho. Secondo la storia ipotetica che viene narrata, Franco venne ucciso nel luglio del 1959. All'epoca, Nacho, nato nel 1918, aveva 41 anni, ma quando viene intervistato dal narratore appare come "molto vecchio e con problemi di udito", è inpensione ed è tornato a Guadalajara. E' logico supporre che quando rivela la verità Nacho abbia 65 anni, età che ci permette di situare l'intervista all'inizio del decennio 1980, ovvero molto dopo la morte dello stesso Aub. Il racconto, fra l'altro, è stato pubblicato nel 1960.
Ma chi è questo narratore del futuro? E' spagnolo o messicano? Anche qui, Aub trascende sé stesso. Non è messicano: "Usted no es mexicano, ¿verdad?” ,gli chiede Nacho. Però non c'è niente a dirci che sia uno degli intellettuali spagnoli di cui il racconto si prende gioco. Tutto è focalizzato sul cameriere, in una prospettiva che permette al narratore di deridere "l'assoluta ignoranza americana" degli spagnoli, i quali non si rendono conto del "flusso d'odio" che i messicani nutrono nei loro confronti. "Non arrivano a capirlo", sottolinea il narratore, nella loro grettezza nazionalista, con quell'orgoglio che deriva loro dall'opera ispanica che hanno scoperto come beneficio di inventario straniero, improvvisamente. Mai la Chiesa ha prodotto così tanta iattanza, e in così tante teste, e per di più in maggior parte anticlericali. Gli spagnoli - dice - discutono il futuro "congelati nelle loro glorie moltiplicate dagli specchi dei loro ricordi". Sprecano le loro energie a parlare del passato e a formulare sterili ipotesi: "Se quelli di Murcia non avessero cominciato a gridare: saremmo morti!" ...
A questo punto, uno potrebbe anche chiedersi in cosa Aub sarebbe stato diverso dai suoi compagni, in questo senso: in fin dei conti, anche quest'ultimo testo parte dalla domanda circa cosa sarebbe successo se qualcuno fosse riuscito ad ammazzare Franco. Si potrebbe obiettare che i giochi para-storici di Aub tendono a liberarsi dalla stagnazione storica ed ideologica propria dell'esiliato. Una storia parallela, raccontata a partire dal futuro, diventa utopica nel senso migliore del termine. Nel senso in cui la usa Paul Ricoeur, ispirato da Karl Mannheim, nelle sue letture su Ideologia e Utopia: per Ricoeur, l'utopico consiste nell'immaginare un luogo di enunciazione futura dove giocare al presente, sfuggendo così ai limiti ideologici del qui ed ora.
Così, nel particolare contesto dell'esilio, i racconti para-storici di Aub, narrati da un luogo ucronico di enunciazione, diventano come un vento fresco di energia utopica. Sono testi che denunciano e che si liberano di quella paralisi creativa che l'esilio suole produrre, ossia liberano dalla condanna al silenzio.


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