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Maps To The Stars. Il mondo non ispira più Cronenberg. La recensione

Creato il 24 maggio 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

24 maggio 2014 • Recensioni Film, Vetrina Cinema •

Summary:

“Sui miei quaderni di scolaro, sui miei banchi e sugli alberi, sulla sabbia e sulla neve, io scrivo il tuo nome (…) E per forza di una parola io ricomincio la mia vita. Sono nato per conoscerti, per nominarti. Libertà”. Libertè (Liberty) di Paul Eluard è la poesia che fa da filo conduttore alle vicende di Maps To The Stars, il nuovo film di David Cronenberg ambientato a Hollywood, appena presentato al Festival di Cannes. Sembrano cercare la libertà dalla prigione dorata e folle che li ospita tutti i personaggi del film, che vivono in qualche modo intorno al mondo del cinema. C’è l’attrice cinquantenne in crisi con la propria carriera e con il fantasma della madre che cerca ostinatamente il ruolo della propria vita (Julianne Moore). C’è la giovane assistente (Mia Wasikowska) che, tramite Carrie Fisher (che qui fa se stessa) viene assunta dall’attrice come assistente. In realtà ha un passato oscuro: ha dato fuoco alla casa ed è stata allontanata dalla sua famiglia, dove il padre (John Cusack) è una sorta di guru, a metà tra lo psicologo e il fisioterapista delle star, e il fratello è una baby star alla Macaulay Culkin. La ragazza fa amicizia con un aspirante attore che per vivere guida limousine (Robert Pattinson). Tutti, o quasi, per scelta personale o per scelta altrui, troveranno la loro libertà. Come, non ve lo diciamo.

Libertà è anche fare il film che più interessa in un dato momento storico, senza preoccuparsi di restare fedeli a uno stile o a una poetica. David Cronenberg, che solitamente non scrive le proprie sceneggiature e qui mette in scena uno script di Bruce Wagner (Scene di lotta di classe a Beverly Hills), aveva rivendicato questa libertà un paio di anni fa a Venezia, quando qualcuno definì il suo A Dangerous Method poco “cronenberghiano”. In realtà quel film “cronenberghiano” lo era molto e chiudeva una fase della sua carriera. Quella, iniziata con Spider, in cui ha analizzato le mutazioni della mente, dell’identità, quelle che la malattia o le nostre scelte operano sulla nostra percezione, sulla nostra coscienza, sul nostro io. Quella fase era culminata con un film su Freud e Jung (citato anche qui, con la sua imago dei), studiosi che più di ogni altro si sono occupati dei meandri della mente umana. La prima fase della carriera di Cronenberg, quella di Videodrome, La mosca, Crash, era stata incentrata sulle mutazioni del corpo, e gli effetti che i media e la tecnologia hanno su di esso.

Robert Pattinson, Julianne Moore and David Cronenberg - Red carpet - Maps to the Stars © AFP / B. Langlois

Ora, da Cosmopolis in poi, David Cronenberg sembra volersi concentrare su altri aspetti del mondo di oggi. Racconta e mette alla berlina il mondo dei ricchi, dei famosi, dei viziati. In questo senso Maps To The Stars (il titolo fa riferimento alle mappe che indicano le ville delle stelle di Hollywood) è complementare a Cosmopolis ed è anche il suo negativo: lì si parlava di finanza, qui di cinema, lì eravamo a New York e qui a Los Angeles, in quel film Robert Pattinson era portato in giro in limousine e qui la guida. La confezione è meno scintillante e patinata che in Cosmopolis, ma, come in quel film, la sensazione di trovarsi dentro a un film di Cronenberg si avverte subito, grazie a una fotografia e a una recitazione che, unite alle inquadrature, ci presentano dei personaggi straniati e stranianti, quasi fossero sospesi e in un certo senso “staccati” rispetto ai luoghi che abitano.

Forma a parte, però, del Cronenberg che conosciamo non c’è traccia, o quasi. Ci sono le cicatrici sul volto e sul corpo di Mia Wasikowska (replicate da quelle del trucco di Robert Pattinson, nel momento in cui è sul set di un telefilm di fantascienza). Ma sono nascoste. Così come è nascosto il discorso che Cronenberg fin qui ha portato avanti. Un Autore che ha sempre avuto una sua poetica e un suo stile ben precisi, qui sembra pescare in immaginari che non sono i suoi, come quelli di David Lynch (le riunioni con i pezzi grossi del cinema di Mulholland Drive) o di Robert Altman (I protagonisti) e quelli di Brett Easton Ellis (i vizi e le psicosi dei ricchi e annoiati californiani), ma senza riuscire a descriverli con la stessa forza, personalità e lucidità. Il tema della decadenza di Hollywood, poi, è stato già sufficientemente raccontato perché se ne possa dire qualcosa di nuovo.

Se, fino a La promessa dell’assassino, i film di Cronenberg erano fatti di immagini potenti, scioccanti, e da dialoghi ridotti all’osso, essenziali e secchi, oggi i suoi film sono verbosi e ridondanti, e le immagini hanno perso la loro forza. Soprattutto, alle sue ultime opere manca il carattere di universalità. Oltre all’empatia con i personaggi: se la sofferenza di Seth Brundle nella sua trasformazione in mosca ci arrivava tutta, qui non sentiamo nessuno dei tanti struggimenti dei protagonisti del film. Ma è Cronenberg ad essere cambiato o lo è il mondo intorno a lui? Se negli anni Ottanta e Novanta la scienza, la tecnologia, i media sembravano ispirarlo, oggi, che la tecnologia è soprattutto i social network, i media sono soprattutto gossip, e tutto è chiacchiericcio, gli spunti sono quello che sono. E forse Cronenberg non è più lui perché questo mondo non lo ispira più.

Di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net

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