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Marco Scalabrino, GIOVANNI MELI

Da Narcyso

Marco  Scalabrino, GIOVANNI MELI, LA VITA E LE OPERE, Edizioni Repanum

Fu dunque il Meli un arcade?

di Marco Scalabrino

meli

Il poeta si accomiata dalla vita (Alessio Di Giovanni) con un senso di dubbio e d’irrequietezza che rimane alla base vera della sua filosofia e lo specchio più sincero della sua indole. Egli è via via arcade e verista, amante e odiatore delle donne, legittimista e ribelle, ligio del passato e speranzoso d’un migliore avvenire; rispecchia insomma, nei vari atteggiamenti del suo pensiero, il secolo proteiforme in cui visse. Ma in fondo all’animo di questo poeta, che i più hanno creduto e credono un arcade, un cuore contento, uno spensierato cantore di belle donne, c’è qualcosa di inquieto, di scettico, di pessimistico.

In Italia nel secolo XVIII dominava l’accademia dell’Arcadia, che postulava un rifugio ideale nell’omonima regione greca, nel suo mondo primitivo e pastorale, a base di canzonette e odi; e con quest’accademia il Meli dovette fare i conti. Da una parte ne imitò contenuti e stili, dall’altra andò al di là di essa, rivelando tendenze illuministiche o addirittura realistiche. Non per nulla aveva fatto studi non solo letterari, ma anche filosofici, meditando sulle pagine del Rousseau e degli enciclopedisti e derivandone l’ideologia dell’uguaglianza sociale, dell’innocenza primordiale e della spontaneità del dialetto.

L’influenza di Voltaire, di Montesquieu, di Rousseau subita dal poeta, viene messa in luce da Giovanni Alfredo Cesareo in un saggio del 1924, mirante in primis a dimostrare quanti affrettati e superficiali fossero stati taluni giudizi, secondo i quali il Meli non sarebbe andato “oltre l’Arcadia”; invece, sulla poesia rusticana, sentimentale e burlesca, il poeta fece germogliare il virgulto della poesia sociale. Nella poesia, come nella vita, bisognava alla natura artificiale degli Arcadi sostituire la vera natura, la natura fresca, agreste, divina, la natura originaria. Un filosofo ne aveva ricavato un suo nuovo sistema dell’universo: Jean-Jacques Rousseau; un poeta ne doveva ricavare l’esempio della nuova arte; questo poeta fu Giovanni Meli. L’Arcadia, considerando il contenuto come fuori dalla sua forma, si propose di non trattare che argomenti tenui, sdolcinati e pastorelleschi; gli Arcadi si figurarono di rimediare all’ampollosa nullaggine del secolo anteriore proponendo astrattamente l’unico contenuto di tutte le forme: il contenuto rurale. Dopo tanti arcadi di professione, il Meli riuscì a conciliare il contenuto e la forma; la sua poesia è densa di fatti, di cose, di realtà sensibile e sentimentale. I suoi pastori e le sue pastore, sebbene per un vezzo del tempo portino i nomi dell’antica bucolica, sono creature viventi che s’atteggiano, parlano, si muovono, lavorano, cantano, con nativa semplicità, con perfetta evidenza e naturalezza. Non sono, i primi, oziosi, sdolcinati e concettosi; né, le seconde, preziose e svenevoli. Sono rozzi villani, che trattano la zappa e l’aratro, corrono dietro le capre per i dirupi a rischio di fiaccarsi il collo, attendono alla vendemmia, vanno ad attingere acqua alla fontana e si nutrono di pan di vecce. Le fatiche della campagna sono vedute e rappresentate dal Meli con affetto e rispetto; il sentimento della vita campestre in lui fu così poco artificiale che pare quasi il necessario prodotto del suo temperamento e delle condizioni in cui egli si trovò a vivere. Arcadia, codesta? O non pare piuttosto di sentirvi dentro come un odore aspro di naturalismo zoliano e un oscuro presentimento di rivolta sociale? Giovanni Meli ebbe veramente un suo ideale della vita rustica: lo sentì profondamente e lo rappresentò originalmente e potentemente. Egli si rifugia nell’adorazione della campagna per il rammarico lungamente represso dei suoi tempi e della sua condizione e vi nutre il desiderio della pace e la filosofia del rumores fuge di Orazio.

Giovanni Meli non fu un arcade (oppone Giuseppe Pipitone Federico, che ha raccolto una gran messe di documenti e di testimonianze sul poeta siciliano) malgrado che fosse egli vissuto in mezzo all’Arcadia e gli argomenti e i motivi di parecchie cose sue avesse derivato da quelli dell’Arcadia. Il suo mondo non è idillico come quello del Metastasio, seppure egli amava l’Idillio come forma tipica della rappresentazione campestre, come schietta manifestazione dell’animo suo, che si compiace, che si entusiasma alla Natura. Il Meli guardava alla Natura con occhio di filosofo e di artista; così animava, trasformava il paesaggio che viene da lui restituito alla sua dignità. Tuttavia, come tutti i poeti del suo tempo, non poté sottrarsi all’influsso della mitologia, che era del resto una delle principali materie di insegnamento delle vecchie scuole. Romperla, apertamente, con la mitologia il Meli non poteva; fece di meglio: la volse in ridicolo e vi riuscì. La lirica del Meli mantiene quasi sempre il carattere popolare, riuscendo a nuovi e più graziosi motivi dopo tutta quella fungaia di poeti erotici onde le mandrie arcadiche s’erano per un bel pezzo allietate. Non vi è dubbio: il fondo di codesta lirica aveva costituito il grande laboratorio della poesia arcadica nel secolo XVIII, ma che vale? Il poeta codesto contenuto, vecchio quanto il mondo, ha saputo rinnovarlo, ridandogli freschezza di gioventù. Dov’é dunque l’Arcadia del Meli? Non so come si sia potuto vedere nel Meli un arcade, quando, a chi legge bene e ne consideri l’opera multiforme, appare indiscutibile, limpida la nota di amaro umorismo e di dolore che era in fondo all’anima sua.

La produzione del Meli (Tommaso Aiello) lo pone alla confluenza tra vecchio e nuovo, tra una rielaborazione originale della tradizione arcadica e le nuove istanze della stagione illuministica. Rousseau, che egli ammirava (ne aveva letto i libri e meditato sul nuovo concetto della natura), gli aveva insegnato a cercare nella natura non soltanto il segreto di una nuova sensibilità, ma anche la norma di un vivere più umano. Fu arcade il Meli? Sì, se si guarda al repertorio metrico e allo sfondo agreste delle sue liriche; no, se si guarda allo spirito, al modo di vedere e di sentire la natura. Giacché egli non si appagò della finzione arcadica che gli dava una natura fatturata e retorica, come non si appagò delle formule immaginative e verbali in cui dall’Arcadia ufficiale la natura era stata fissata e imbalsamata.

Giovanni Meli, poeta e uomo, non poteva sottrarsi al suo tempo (Elisa Sorbello), ma sentiva forte l’influsso delle opere che preannunciavano un’era di riforme. Particolare significato assume l’incontro ideale tra Rousseau e Meli, che è come dire tra Rousseau e la Sicilia intellettuale dell’epoca, tant’è che molte idee a sfondo sociale del ginevrino sono state poi punti ideali del collegamento col Meli. Le idee di Rousseau, rese più spontanee attraverso la rima di Giovanni Meli, si affacciano sul limitare dei salotti palermitani, dove si va facendo strada l’esigenza di riconquistare quella serietà dello spirito e della mente, che si era come perduta nella galanteria di un mondo artificiale.

Tutta la critica del Meli s’è aggirata (Francesco Lanza) intorno alla domanda: Fu arcade il Meli o non fu arcade? Ma è una questione che conta poco. Libera dalle scorie, sotto le fronde caduche della scuola e della maniera, proprie del tempo in cui il poeta vive, resta una fresca e vegeta poesia: l’amore e la celebrazione della terra, che sono al fondo dell’uomo come un instancabile ritorno, un innocente trasporto per la bellezza sensuale della donna e della natura, un umore popolare fatto di buon senso e di arguzia, che vede il giusto e vi aspira, coglie con evidenza e vigoria i moti del corpo e dell’animo, dei difetti sorride dall’alto o non più compatendo li dissolve nel riso della caricatura o nel sale della sentenza. Il dialetto, col suo sapore immediato, il colorito, il sottinteso e il trapasso della rappresentazione che ha del popolo, servì ottimamente al Meli per raggiungere, dove l’ha, questa vivezza e indipendenza dall’Arcadia, per reagire, in un certo senso, contro la sua propria natura e ravvivarla dov’era sincera e originale.


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