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Maria 1940

Creato il 20 marzo 2015 da Cultura Salentina

Maria 1940

20 marzo 2015 di Redazione

di Lorenzo De Donno

Maria 1940

Andre Kohn

A tredici anni era già alta e slanciata come un bocciolo di rosa che, al primo calore di fine
inverno, si dirama dal tronco della pianta madre e si sviluppa verso l’alto, puntando al cielo,
sopravanzando il rado e tenero fogliame appena spuntato e, nel frattempo, dischiude
appena i sepali, lasciando intravedere il suo colore non ancora definito. Così cresceva il
suo corpo acerbo, fra la sottaciuta invidia delle sue amiche, rimaste ancora bambine,
sotto gli occhi meravigliati della gente che, come il giardiniere accorto, sembrava
attendere il momento della sua fioritura, pregustandone i colori ed i profumi. Maria viveva
questa sua metamorfosi quasi inconsapevole della sua bellezza e delle aspettative di chi la
circondava. Andava orgogliosa, e non faceva nulla per nasconderlo, dei suoi lunghissimi
capelli, neri e corposi, che le ammantavano le spalle quando non li raccoglieva in una
grossa treccia. Aveva la pelle chiara come l’avorio e gli occhi cangianti, color nocciola con
pagliuzze verdi che sembravano brillare alla luce del sole …

Per strada camminava a grandi passi, spingendo in avanti l’ampia gonna a pieghe
che indossava sovente e che, al suo incedere, sembrava aprirsi e richiudersi come un
ventaglio. I suoi piedi, cinti dai sandali sottili, sfioravano appena la strada, tanto era
leggera ed aggraziata, come in un passo di danza, bilanciato dal movimento morbido e
naturale delle braccia bianche. Chi la osservava la prima volta non la dimenticava
facilmente, e non era mai meno bella, neanche quando era accigliata o se nella sua cesta,
invece di un mazzo di fiori, portava della verdura o gli stracci da lavare del laboratorio del
padre.
I ragazzi del quartiere e i garzoni delle botteghe aspettavano le sue rare uscite e ogni
occasione propizia per incontrarla. La attendevano la domenica, al termine della messa,
dopo aver tentato inutilmente di incrociarne lo sguardo durante tutta la funzione,
sollevandosi sulle punte dei piedi ed allungando il collo verso la navata riservata alle donne.
Oppure speravano in incrociarla per le strade del rione quando sbrigava, da sola o con la
madre, qualche commissione. Salivano fin sulle terrazze dei caseggiati vicini quando, al
sabato mattina e dopo il bucato, la ragazza andava a stendere i panni ad asciugare. Si
sedevano sulla parete esterna ed inclinata della tromba delle scale, la parte più alta, ma
anche l’unica zona non protetta dei terrazzi di quei vecchi palazzi, sfidando il muschio ed i
licheni che potevano farli scivolare in basso fino a sfracellarsi al suolo. Da
quell’osservatorio, dividendosi le “tirate” di un mozzicone di sigaro che li faceva sentire già
uomini, potevano guardare fin nella terrazza di Maria ed aspettare che lei, uscendo dai
corridoi profumati di sapone delle lenzuola stese ad asciugare, girasse lo sguardo e si
accorgesse di loro, che la salutavano con ampi gesti delle braccia. Rispondeva con un
cenno ed un sorriso mentre, con l’altra mano, si proteggeva gli occhi color nocciola dai
raggi radenti del sole.

Maria aveva appena il tempo di salutarli, i suoi amici di infanzia, prima chiassosi e
distratti ed ora così premurosi e presenti, vergognandosi un po’ per quel nuovo ed
inspiegabile compiacimento che provava per queste attenzioni. Riconosceva Tore, un
ragazzo alto e magro, scuro come la pece, con due occhi da saraceno, che si toglieva la
canottiera e la agitava come una bandiera. Poi c’era Luigino “u pilirussu”, rosso e
lentigginoso, con il viso sempre bruciato dal sole, il buontempone del gruppo. E c’era
ancora, a dispetto del ruolo “sociale” che si era ritagliato, Antonio, il primo della classe,
che faceva il chierichetto e serviva alla messa della Chiesa di San Matteo. A loro si
aggiungevano altri amici occasionali, selezionati con cura dal trio dei fedelissimi.

Sollecitata dalla voce della madre che aveva già imboccato le scale, Maria rubava
ancora un attimo per guardare verso l’orizzonte, spaziando fra i tetti, tutti uguali, tutti di
pietra dorata, interrotti solo dalle altissime facciate delle chiese barocche. Un paesaggio
che era animato dai voli delle rondini, dai panni che sventolavano sotto le raffiche della
tramontana estiva e dall’ondeggiare delle cime di qualche albero.
Chissà perché le cose, osservate dall’alto, le sembravano sempre più belle e pulite.
Forse perché la sua ingenuità, da giovanetta, le faceva percepire e dilatare il bello e la
induceva ad ignorare il brutto, rendendolo apparentemente piccolo ed insignificante.
Maria respirava profondamente l’aria che, lassù, sapeva del profumo di gelsomino che
risaliva dai giardini incastonati fra i palazzotti, lasciandosi, più in basso, l’odore acre della
cenere dei focolari e delle muffe, i miasmi dei pozzi neri e dei pollai, il rancido di roba
andata a male depositata negli angoli dei vicoli.
«Mariaaaa! Ti decidi?» insisteva la madre, che aveva già raggiunto il pianerottolo. La
ragazza si avvitava velocemente su una spalla la nuvola di capelli neri, strizzandone il
vento che ci aveva giocato fino ad un attimo prima, raccoglieva la cesta vuota e scendeva
velocemente la ripida rampa di scale che la riportava al fresco ed alla tranquillità della casa,
lasciando i ragazzi, sulla terrazza di fronte, a litigare e spintonarsi su chi di loro, da grande,
l’avrebbe sposata…
(Qualcuno ricorda ancora oggi la bellezza di quella Maria … Questa storia è dedicata ad
ognuno di noi ed alla “Maria” che ha amato da fanciullo).

 


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