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Mario Soldati e la modernità

Creato il 06 settembre 2011 da Sulromanzo

Mario SoldatiOre dodici e trenta di una mattinata invernale. Fuori tira un freddo secco da febbraio romano, ma l’aula è calda di termosifoni e respiri. Venticinque 13-14enni, le gambe troppo lunghe sotto i banchi da bambini, aspettano che passi quell’ultima ora del venerdì.

Ma alla prof di italiano piacciono le sfide. Ha scelto uno stralcio di un racconto di Mario Soldati, intitolato Specchi e spettri. Sa già che la sfida è dura: Mario Soldati contro la tentazione di sbirciare sul display del cellulare nascosto nell’astuccio; una pagina scritta versus le fantasie apparentemente infinite del nuovo modello della Wii, che li aspetta al varco come le sirene di Ulisse. Sogni e fantasie di un gruppo di adolescenti stretti per sei ore al giorno in uno spazio chiuso, in cui spesso si sentono come il Conte di Montecristo nel castello di If.

Insieme iniziano a leggere.

“Noi abbiamo una piccola casa, su in Borgo Vecchio. A giugno ci veniamo sempre. A giugno la montagna è meravigliosa. Ma d’inverno è troppo complicato, non c’è riscaldamento. Così veniamo in questo vecchio albergo. Non è bello, ma è tanto comodo, e io lo adoro.”

Non sanno niente questi studenti, di Mario Soldati. Non sanno neanche che è morto nel 1999, alla fine di un secolo che non hanno mai conosciuto, visto che molti di loro sono nati in quello stesso anno. Non sanno niente dei film di Soldati, popolati dai volti leggendari di Alida Valli e Massimo Serato, e da atmosfere fogazzariane tra il gotico e il romantico.

Tuttavia, senza rendersene conto si lasciano avvincere da quella strana storia. Che parla di un certo Timonier, custode di un rifugio alpino:

“Alto, robusto, placido e roseo, con due baffoni neri. Niente nervi impressionabili. […] Coraggioso, leale, simpatico: insomma, un montanaro a prova di bomba.”

Un personaggio ben lontano dalle creature evanescenti del genere ghostly, quanto di più lontano da suggestioni jamesiane. Eppure, di notte, comincia a sentirsi chiamare:

“Suppone sia uno sciatore che ha fatto qualche traversata e che si è perduto. Salta giù dal letto, e va ad aprire. Ma non vede nessuno.

La luna era alta in mezzo al cielo, le ombre sulla neve erano chiare e trasparenti. Gira intorno alla casa. Chiama. Nessuno risponde.”

Ora nell’aula l’attenzione è altissima. Un silenzio pneumatico, spezzato solo dalle voci della lettura a turno. La prof non interrompe mai per commentare, parlerà solo alla fine, vuole che la voce dello scrittore sia l’unica a parlare, come se fosse lì con loro, seduto in circolo a raccontare la sua storia. Nei pochi minuti trascorsi su quelle pagine si è verificato uno scarto spazio-temporale, e sembra di stare in quel vecchio albergo in montagna, come la ragazza che ascolta divertita e impressionata quelle strane storie di spettri: “Mi affaccio alla finestra. Vedo quei grandi abeti scuri, penso che forse sono ancora gli stessi di una volta. Specialmente le notti di cattivo tempo, quando il vento urla e fischia nei rami e fa tremare i vetri…”

E quando il racconto finisce, si rimane legati ancora un po’ a quell’atmosfera, a quel silenzio ovattato da montagna piemontese che ha fatto da sfondo a tante storie di Soldati.

“Prof, ma chi era Mario Soldati? Che altro ha scritto?”

Di certo non basta quel che è rimasto della lezione per parlarne. Per dire come Soldati abbia attraversato tutto il Novecento con la sua voce narrativa mai implicata negli sperimentalismi di moda; e come questa sua caratteristica abbia preservato la sua scrittura dal sembrare, oggi, datata e fuori tempo.

Ho riletto, da poco, il romanzo Le due città, uscito per Garzanti nel 1964. Una storia intessuta sulla tensione di un potente dualismo, quello tra Torino e Roma, che diventano più che altro paesaggi dell’anima per il protagonista, Emilio Viotti. In terza persona sono raccontate le sue scissioni, le sue nevrosi che hanno per sfondo cinquant’anni di storia italiana, passando per il fascismo e il dopoguerra. Dà però la sensazione al lettore di una lunga confessione privata, poiché, come notava Cesare Garboli, era un’arte di Soldati quella di saper dire io senza dirlo davvero. E ne esce un profilo di personaggio modernissimo, sospeso in una tensione narcisistica inconsapevole, che fino alla fine si fa attraversare dagli eventi della vita senza che questi gli appaiano essenziali; come dice Massimo Raffaeli nella bellissima Introduzione, “si è lasciato e guardato vivere, sempre a metà, sempre diviso tra un mai-più e un non-ancora, tra il qui e l’altrove simboleggiati da Torino e Roma”.

Lo stesso dualismo del protagonista de La sposa americana, che ha bisogno sia di Edith sia di Anna per amare entrambe di un amore speculare che si appaga solo nella sua incompletezza.

E pensare che Soldati fingeva sempre di presentare le sue opere come se fossero in rotta con la modernità; come fossero “pezzi d’antiquariato”. E forse è proprio per questo che, al contrario di tanti altri grandi maestri di scrittura che hanno ceduto agli sperimentalismi del momento e ci appaiono, adesso, inevitabilmente datati, lui è invece per il lettore di oggi così vicino e attuale. Fu proprio questo, come dice Massimo Onofri, “il suo modo di essere assolutamente moderno.”

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