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Marion Kostner. Una migrante sul ghiaccio.

Creato il 14 marzo 2012 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Marion Kostner. Una migrante sul ghiaccio.

- Marion ma ora devi comprarti anche il vestitino!

- Ma no Domenico, quello è per le competizioni. Io sono fuori gara ormai. Già è tanto se sto in equilibrio mentre i mocciosi mi sfrecciano tra le gambe.

I mocciosi. Loro sono privi di quei timori adulti di rompersi caviglie, lussarsi ginocchia, fare grame figure. Dopo l’adolescenza, infatti, arrivano le prime rughe e si invecchia inesorabilmente.

Ho sempre sognato il pattinaggio sul ghiaccio e adesso qui, in mezzo agli orsi e i crauti bollenti, posso finalmente realizzarlo. Da dove vengo al massimo ci sono le scuole di pattinaggio a rotelle, ma nessuno ha mai capito dove concretamente e, inoltre, la cosa sembrava losca. Non “a calcio”, “a catechismo”, ma “a pattinaggio”. Infatti quando qualcuno diceva che “andava a pattinaggio”, qualcun altro lo pedinava di nascosto.

Si, ho avuto decisamente una infanzia breve. Come direbbe Clint in “Fuga da Alcatraz”.

E poi i meravigliosi spettacoli televisivi:  tutto un fluire di abitini orrendi svolazzanti con piume posticce, e la pattinatrice leggiadra era sempre sorridente anche se non le era riuscito il salto (dopo solo qualche anno  di preparazione per la gara) o si era appena spalmata sul ghiaccio, perdendo l’equilibrio. Stupende. Il pattinaggio a due invece mi ha sempre annoiato, perché tende forzatamente a riprodurre un equilibrio di coppia che nella realtà è fantascienza.  Alla fine poi nella vita i due si mettono insieme. Che palle.

Ma è stata la visione di “Ice Princess- un sogno sul ghiaccio”, un bel polpettone Disney, a darmi il colpo di grazia. Nel film una studentessa di fisica prepara una tesi sui movimenti nel pattinaggio e poi si lascia conquistare agonisticamente dallo sport.

Dunque a Berlino, decido di iniziare un corso per principianti. Compro anche i pattini, belli, bianchi, come quelli della Kostner mentre fa il triplo axel per aria. Forse li allaccio anche male perché mi rincorrono in due dicendomi come si legano: fino all’ultimo gancetto, stretti ma non troppo.

Viel  danke, che gentili.  E io che ciabattavo indolente, manco dovessi entrare in uno stabilimento balneare.

La prima volta è stato devastante. Altro che imene.  Non riesci a stare in piedi e più ti reggi alla sbarra più scivoli perché il corpo è tutto sbilanciato. Serve un insegnante tedesco forzuto e masochista che ti regga a lato, come fossi ubriaca. Io ne ho due (si, l’alcool mi distrugge), hanno almeno sessant’anni e io mi chiedo come arriverò a quarantadue.

Le mie compagne di corso sono una iraniana, una polacca, una rumena.  Alla prima lezione c’era anche una tedesca purosangue che poi, sentendosi in minoranza, è andata nel branco del secondo anno. Il mio tedesco è il peggiore e c’è la polacca che fa motti di spirito dicendo: “Ah, Deutsch Kurs, auch”.

Ma perché non torni a Cracovia, per esempio?

Quando sono caduta, perché e dalle e dalle alla fine cadi, la mia insegnante continuava a ripetere Nein, Nein, Nein, come se fosse colpa mia! Incredibile. Ah, forse lo diceva perché sono entrata in pista come Michelle Trachtenberg nel film. Forse.

Le prime lezioni scorrono da ferma, per imparare a stabilizzarsi e prendere confidenza con il ghiaccio. I piedi sono uniti e leggermente aperti lateralmente, schiena dritta, ginocchia piegate, piccoli passi come in una marcia. Braccia aperte di lato alte fino alle spalle e ben salde. Ci si muove lateralmente mai pensando di raggiungere un punto davanti a noi. Rechts, Links, affondando il piede come per spingere qualcosa sotto.

Concentrazione. Rechts, Links, Rechts, Links.

- Mariooon, Monti ist besser als Berlusconi, oder?

Sta zitta polacca, che mi fai cadere.

La rumena al terzo mese di corso è ancora arenata alla sbarra. Poverina. Beh, si sa che si impara più lentamente quando non sei più una ragazzina. L’iraniana, Parvin, invece è carinissima. La sto già corteggiando per farmi invitare a Teheran e ascoltarla mentre parla arabo con la madre che cucinerà benissimo e indosserà vestiti colorati, mica come ‘sti stoccafissi imbacuccati nei North Face o Jack Wolfskin.

Mi redarguisce, dicendomi che si parla il persiano, non l’arabo. Faccio pippa. Per rimediare le sventolo il mio amore per Asghar Farhadi, il regista iraniano di “Nadir and Simin, a separation” che vidi alla Berlinale dopo essere stata folgorata da “About Elly”. Piccole tragedie quotidiane che rivelano la società iraniana. Applausi.

Che dorce. Quando sto per cadere Parvin mi prende per la mano. La prima volta che sono caduta il mio insegnante si è gettato a terra, e di conseguenza tutti gli altri, per farci vedere come ci si rialza. Fico. Sembrava un tulipano che sboccia. Tutti legnosi e poi, bum, tutti giù per terra.

Adesso so pattinare piano, molto piano e concentrata. Ma non cado se seguo le istruzioni dei miei maestri e se c’è il sorriso di Parvin accanto. Basta davvero poco. O quasi.

Natasha “Eva Kent” Ceci


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