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Massimiliano Parente: “Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler” e “La macinatrice”. Intervista all’autore di Iannozzi Giuseppe

Creato il 30 gennaio 2014 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Massimiliano Parente: “Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler” e “La macinatrice”. Intervista all’autore di Iannozzi Giuseppe

In attesa di parlare dell’ultimo romanzo di Massimiliano Parente, Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler (Mondadori, collana Strade Blu), propongo a Voi lettori questa intervista culto all’autore.

il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler

il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler

Più pop di Andy Warhol, più eccentrico di Salvador Dalí, più geniale di Marcel Duchamp, Max Fontana, “il più grande artista del mondo” secondo alcuni critici, arriva al successo per caso, a quarant’anni, con un gesto casuale, proprio il giorno in cui aveva deciso di togliersi la vita sentendosi un fallito.
Da quel momento si trasforma: capelli verdi dal taglio hitleriano (ma “spettinati alla Jack Nicholson”), cappotto stile nazi, Nike Shox ai piedi, non c’è colpo che non mandi a segno. Ogni sua opera scandalizza, sconcerta, fa scalpore, fa inorridire. Inavvicinabile come una rockstar, capriccioso come una diva di Hollywood, spiazzante e provocatorio per il puro gusto di esserlo, arriva perfino a indicare in Adolf Hitler un modello artistico da ammirare. Nella sua nuova esistenza da cinica pop star conserva, però, anche un lato tenero: la piccola Martina, una compagna di vita che, impossibilitata a parlare, comunica usando il linguaggio dei segni.
Ma Max Fontana è davvero questo formidabile genio? O è solo un furbo truffatore? O addirittura un killer? E soprattutto: perché è scomparso?
Sì, perché dopo essere stato protagonista di sensazionali performance tra Roma e Parigi, New York e Las Vegas, e dopo essersi fatto beffe di colleghi, critici, galleristi e giornalisti, alzando sempre di più la posta del suo rischiosissimo gioco tra arte e vita, qualcosa – ancora una volta per caso – è andato storto, e lui è stato costretto, suo malgrado, a indossare i panni del fuggitivo. Braccato da mezzo mondo, ha dovuto lanciarsi in una fuga via via più incalzante, disperata e piena di poesia. Fino al capolinea, naturalmente da artista. Anzi, da più grande artista del mondo.
Scandalosamente intelligente – e intelligentemente scandaloso -, questo nuovo romanzo di Massimiliano Parente è un’opera esilarante, coinvolgente e carica di suspense, una satira senza limiti dell’uomo e della società occidentale, l’epica moderna di un ultimo eroe comico universale. Un libro che è anche un’avventura del pensiero, una profonda riflessione sull’esistenza e sulla creazione artistica. La storia memorabile e donchisciottesca di un uomo capace di trasformare la vita e rendere ogni gesto un evento straordinario.
E una cosa è certa: alla fine lo odierete e lo amerete, perché nessun artista si è mai spinto né potrà mai più spingersi fin dove ha osato Max Fontana.

Massimiliano Parente è nato a Grosseto nel 1970 e vive a Roma. Ha pubblicato i romanzi: Incantata o no che fosse (ES 1998), Mamma (Castelvecchi 2000), Canto della caduta (ES 2003), La macinatrice (Pequod 2005), Contronatura (Bompiani 2008), L’inumano (Mondadori 2012), il saggio sulla Recherche L’evidenza della cosa terribile (Cooper 2010) e il pamphlet La casta dei radical chic (Newton Compton Editori 2010). Scrive per “Il Giornale”.

Massimiliano Parente

Massimiliano Parente

1. Parliamo, se non ti spiace, di Te, Massimiliano Parente, prima di entrare nel cuore, nei sotterranei de “La Macinatrice”. Dunque, chi è Massimiliano Parente? Una breve autobiografia autorizzata, per così dire.

E’ quella, di poche righe, che trovi nei risvolti di copertina dei miei libri.

2. Prima de “La Macinatrice”, hai scritto altri romanzi importanti: “Incantata o no che fosse”, “Mamma”, “Canto della caduta”. Si può dire che “La Macinatrice” è l’ideale proseguimento di un percorso narrativo iniziato sin dal tuo primo romanzo?

Tutto rientra in un ampio progetto che spero di avere il tempo e la forza di portare a termine. Penso sempre a ogni libro come a una parte più o meno grande di un’opera unica. Non so ancora dove arriverò ma intuisco di volta in volta i passi successivi. Per questo mi fanno sorridere quelli che danno consigli agli scrittori, scrivi questo, scrivi quello. O c’è un’ossessione complessiva, o si è solo degli sceneggiatori mancati. E pertanto il problema dell’editore è secondario, fondamentale è non tradire mai la propria opera. “Ciò che è decisivo accade nonostante tutto” diceva Nietzsche.

3. Qualcuno, giustamente, ti ha già definito l’Houellebecq italiano. Ti ci ritrovi, e sì, perché? Sotto un profilo narrativo, sotto quello delle idee, cos’hanno in comune Massimiliano Parente e Michel Houellebecq?

Niente, e per una ragione per me fondamentale. Tra una pagina di Houellebecq e una di Ken Follett vedo poca differenza. Nel senso che non entra in conflitto con le parole. Houellebecq è uno scrittore che scandalizza i giornalisti e li scandalizza sui contenuti, e questo in letteratura segna il limite di una data di scadenza troppo breve. Anche Moravia scandalizzava, oggi fa ridere. Del resto non leggo uno scrittore per avere delle idee, ma per avere la forma delle idee, che è l’unico modo di vedere le idee. Molto più interessante Hervé Guibert, del quale purtroppo molti libri importanti restano ancora non tradotti.

4. Quali autori, di ieri e di oggi, hanno maggiormente contribuito a formare il tuo stile, le tue idee intorno alla letteratura, alla società e alla politica? E, per quali motivi?

Soprattutto quelli che hanno sfondato e rifondato il romanzo, che hanno spalancato nuovi mondi scardinando qualcosa negli schemi narrativi, nelle strutture linguistiche, che sono stati insieme tradizione e avanguardia. Soprattutto l’irriducibilità al conformismo narrativo, che significa appunto avere la stessa forma, e la radicalità nei confronti della propria forma. Te ne potrei fare una lista infinita, da Sterne a Faulkner, da Flaubert a Proust a Gadda a Verga a D’Arrigo al Pasolini di Petrolio. Resto sorpreso, oggi, quando vedo certe piccole operazioni di classificazione, che cercano di ricondurre al concetto di “genere” ciò che, essendo letteratura, è inclassificabile. Qualcuno, siccome qui non si distinguono più opere d’arte da opere commerciali, si è inventato la parola “massimalismo”, con lo scopo di far passare il concetto che esista un genere in quanto non è di genere. Ma che significa? Era massimalista Joyce? Erano massimalisti Balzac, Dostoevskij, Dante, Manzoni, Musil o De Roberto, con quell’immane e meraviglioso romanzo che è I viceré, del quale ogni pagina vale tutto Tomasi di Lampedusa? Allora è massimalista tutta la letteratura che conta. Anche la Cappella Sistina è massimalista.

5. Scriveva Primo Levi ne “La chiave a stella”: “…i nervi degli scrittori tendono ad essere deboli: ma è difficile decidere se i nervi si indeboliscano per causa dello scrivere… o se invece il mestiere di scrivere attragga preferenzialmente la gente predisposta alla nevrosi. E’ comunque attestato che diversi scrittori erano nevrastenici, o tali sono diventati (è sempre arduo decidere sulle “malattie contratte in servizio”), e che altri sono addirittura finiti in un manicomio o nei suoi equivalenti, non solo in questo secolo, ama anche molto prima; parecchi, poi, senza arrivare alla malattia conclamata, vivono male, sono tristi, bevono, fumano, non dormono più e muoiono presto.” Qual è la tua opinione circa il mestiere di scrivere? Perché scrivi?

Scrivo per portare a termine un’idea di opera che ha preso forma nella mia mente molto presto. Scrivo perché uso l’arte per comprendere la vita e non viceversa, come pensano i mitomani popolari. Di certo non scrivo per “esprimermi”. Non scrivo perché mi piace, perché un scrittore che non sia tale lo riconosci subito da due cose: o lo fa perché gli piace, e quindi, dilettandosi, è un dilettante, o lo fa per mestiere, e allora è un timbratore di cartellini editoriali. Scrivo, detto altrimenti, perché quello che voglio scrivere io posso scriverlo solo io.

6. “La Macinatrice” è un romanzo che accoglie diversi piani interpretativi per il lettore così come per il critico: è un po’ come trovarsi di fronte a la “La sposa messa a nudo dai propri scapoli” di Duchamp. La trama de “La Macinatrice” accoglie pure diverse influenze stilistiche e di contenuti che spaziano dal cyberpunk all’hard-boiled fino al noir e al giallo, ma c’è anche metafisica porno secondo la definizione di Carla Benedetti. E il punto di vista dell’Autore, di Massimiliano Parente, in merito a tutto ciò, qual è?

Vorrei poterti rispondere come Rimbaud a sua madre: “Ho voluto dire quello che lì è detto, letteralmente, e in tutti i sensi”. Uno dei punti centrali del romanzo è appunto La Macinatrice, ossia un dettaglio del dipinto di Marcel Duchamp che hai appena citato. La struttura temporale del romanzo è circolare come il movimento stesso della macinatrice, e non nel senso banale che le ultime righe coincidono con le prime. In ogni pagina Andrea si muove all’interno di un tempo i cui avvenimenti passati e futuri sono sempre compresenti. E’ come quando ricostruisci una storia e la racconti. Nella tua mente c’è tutto, il prima e il dopo, per poterla raccontare sei costretto a togliere ciò che già sai. Nella Macinatrice Andrea si pone domande su quanto già conosce, e in qualche modo queste domande cambiano di volta in volta la prospettiva narrativa. La scoperta della Macinatrice, nascosta nel sottosuolo della Torrenuova, e la sua descrizione minuziosa, non fa cessare la volontà di sapere. Sarebbe come avere il significato matematico di un’erezione. La Torrenuova Srl, nella sua impresa di ridisegnare l’immaginario sessuale, piuttosto che scomporlo analiticamente lo alimenta. Torrenuova non parla per definire, la sua parola scompone per alimentare ancora di più la macchina sessuale, lo sguardo e la parola, il magma telematico delle ossessioni allo sbando.

7. Carla Benedetti, sulle colonne de “L’Espresso”, a proposito del tuo romanzo, scrive: “Parente dedica il romanzo ad Antonio Moresco. Altra cosa strana. Né le classifiche né i premi letterari, né i tam-tam mediatici hanno mai registrato la perturbazione che l’opera di Moresco ha provocato nella scrittura di questi ultimi anni. La registra invece uno scrittore più giovane. In effetti si sente che la ‘Macinatrice’ reagisce in qualche modo ai ‘Canti del caos’. In letteratura succede anche questo. Parte vitale della ricezione di un’opera è la risposta che essa provoca in altri scrittori. Un canale di trasmissione altro rispetto alla macchina dei mediatori e alle loro mappe.” La mia domanda è dunque questa: in che misura la scrittura di Antonio Moresco ha influito sulla tua per la stesura de “La Macinatrice”? per quali motivi?

Ho dedicato il romanzo a Moresco perché è uno dei più grandi scrittori viventi e non, irriducibile al conformismo editoriale. Riguardo a quanto abbia influito sulla stesura non saprei dire. Moresco l’ho scoperto quando la Macinatrice era già quasi finita, e quando l’ho letto sono rimasto sorpreso da quanto lo sentissi vicino. Ci sono parti della Macinatrice che sono state elaborate e scritte tredici anni fa, poi ci sono state molte stesure e rielaborazioni, e in mezzo, appunto, altri tre libri che sono stati dei ponti per arrivare a questo.

8. La genesi de “La Macinatrice”: perché scrivere di Giandomenico Torrenuova, del suo progetto? La Torrenuova S.r.l. è solo un’invenzione della tua fantasia o ti sei anche ispirato al mondo reale, a quello di tutti i giorni?

Torrenuova esiste, o quantomeno è auspicabile. Come la mamma di Mamma.

9. Andrea e Giandomenico, due personaggi chiave, fondamentali: si completano l’un l’altro, o si combattono ma per conseguire, in ogni caso, lo stesso risultato finale?

Entrambe le cose. Andrea è apparentemente l’antitesi di Torrenuova, ma Torrenuova ha anche la chiave delle sue ossessioni. L’atto fotografato da Andrea nell’ultima pagina non è completamente libero. Accade a Rue Larrey numero 11, a Parigi, che è una strada in cui Marcel Duchamp abitò, in un appartamento dove trovò una porta sempre aperta e sempre chiusa, che lo fece pensare anche all’essere androgino, all’essere contemporaneamente maschile e femminile. Andrea stesso è un nome androgino, alla fine l’unico modo che trova per impossessarsi di Elena è quello di farsi possedere da Marco Monti, cercando di diventare lei. L’iscrizione sul vetro torrenoviano, “Yerra Leur” riportà la libertà di Andrea nelle spire di Torrenuova. Il suo desiderio è desiderato, e preventivato, dal business di Giandomenico. Questo, ovviamente, non mette in dubbio la totalità del desiderio di Andrea. Ecco perché il romanzo è destinato a ripetersi, e non ha mai fine.

10. Vagina’s World: è dunque questa la realtà futura che ci aspetta? L’umanità andrebbe avanti soltanto per dar corpo alle sue ossessioni erotiche e soddisfarle?

Vagina’s World è il voyeurismo massimo, già in atto. La rete ha rivoluzionato l’immaginario, facendo cadere la distinzione tra sesso reale e sesso immaginato. Il sesso reale non esiste, è un’illusione. L’unica verità del sesso è nella mente, nel pensiero, nella volontà di vedere. In ogni scopata non c’è mai la realtà del corpo, la mente sessuale non è mai hic et nunc. Internet è reale perché è immagine pura. Tutti vogliono vedere tutto di tutti, ma in fondo a questo desiderio c’è un erotismo gaudente e disperato.

11. Nel tuo romanzo, “La Macinatrice”, c’è un messaggio o un manifesto politico nascosto fra le righe?

Di sicuro sì, ma in senso brutalmente ideologico lo puoi prendere da destra o da sinistra. E’ una critica feroce del capitalismo, e anche la sua più sperticata apologia. Quello che penso io invece è nascosto qua e là, spesso anche nelle parole di Torrenuova o Marco Monti.

12. Stando all’Iliade: Elena, figlia di Giove e di Leda, sorella di Clitennestra, ma soprattutto sposa di Menelao, rapita da Paride e per questo causa della guerra di Troia.
Elena, figlia di Torrenuova, di cui è innamorato (!) Andrea, questa Elena che se la fa pure con Marco Monti, un nano intellettualoide della televisione, potrebbe essere considerata come una sorta di Elena di Troia?

Direi semplicemente una troia, ma nella sua accezione più alta, come spiega bene Torrenuova.

13. “La Macinatrice”, che cos’è per chi non avesse ancora letto il tuo romanzo? Secondo te, il comune lettore come se la figura la Macinatrice nella sua immaginazione?

L’idea di tutto ciò che definiamo osceno che accade inesorabilmente in questo istante. Il desiderio di vedere, il tormento di non poter mai raggiungere l’immagine ultima.

14. Siamo di fronte a un romanzo di idee o a un romanzo di linguaggi? Per me, è più corretto dire che “La Macinatrice” è romanzo di idee e di linguaggi. Ma, ovviamente, l’ultima parola spetta all’Autore…

Concordo con l’intervistatore dell’autore.

15. A tuo avviso, genericamente parlando, esiste una netta differenza fra Letteratura e narrativa popolare?

Assolutamente sì. La narrativa popolare è fatta per essere consumata, la letteratura non tiene conto degli orizzonti di attesa, ne determina di propri. Oggi scrittorini postmoderni o di genere e critici spompati e tromboni vogliono annullare le differenze, far sì che tutto si equivalga a tutto. Sul Domenicale di questa settimana, che ti invito a leggere, ho lanciato questa provocazione: “Aboliamo la letteratura”. Se il valore è l’assenza di valore, o l’equivalenza tra arte e entertainment, tanto vale mettere la letteratura fuorilegge. Perché in realtà già lo è. Perché uno dovrebbe studiare a scuola Leopardi o Gadda quando poi non si distinguono Piperno da Moresco o Wu Ming da Busi?

16. A mio modesto avviso, “La Macinatrice” è un’abile commistione di generi, un’unica soluzione espositiva pienamente originale che non è possibile costringere in un’etichetta o nelle definizioni di Letteratura e di narrativa popolare. Dico giusto?

Direi di sì, e aggiungo: la narrativa popolare non esiste più, esiste solo il Midcult. Sono gli stessi che fanno la fila al Louvre per vedere la Gioconda senza sapere niente della Gioconda. Sono gli stessi che non saprebbero più distinguere una Madonna con bambino di Caravaggio da una di Bellini, perché non sapendo leggere le forme non possono arrivare neppure ai contenuti. Questo oggi, in Italia, vale sia per il pubblico che per la critica. Una volta la narrativa popolare ottocentesca raccontava ciò che il pubblico voleva leggere, mentre l’arte dal romanticismo in poi ha sempre ridisegnato gli orizzonti d’attesa sottraendosi alla banalizzazione imposta dall’industria. Gli chic, al massimo, si facevano ritrarre da Giovanni Boldini. Tuttavia anche Monet o Proust, dopo cinquant’anni, diventano popolari.

17. C’è qualche cosa che vorresti aggiungere a quanto già detto?

Ora non mi viene in mente niente. Magari se passi da Roma ci prendiamo una pizza e mi vendico facendoti cinquanta domande.


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