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“Mia madre”, il nuovo film di Nanni Moretti: la fatica di esserci

Creato il 21 aprile 2015 da Alessiamocci

«She was just sleeping somewhere / Now she’s come back to hold my hand / And we go walking / And the years have all melted away / Yeah, I remember you like yesterday / And the summer’s here, so say goodbye to rain/ [...] I feel like I am surely dreaming/ How can things, oh, so quickly change?/ Well, it’s strange but true I’m telling you truthfully see» Jarvis Cocker, “Baby’s coming back to me”

Il ritmo della canzone (“Baby’s coming back to me” di Jarvis Cocker) che Nanni Moretti ha scelto come colonna sonora della sua ultima fatica “Mia madre” si adatta con semplicità allo stato d’animo – in realtà complicatissimo da accettare e rielaborare – che placa e inibisce i personaggi.

E si tratta di quella stessa semplicità che Moretti rincorre per dare libero sfogo alla sua urgenza di raccontarsi attraverso un flusso di coscienza per immagini, coinvolgente ed esaustivo, capace al tempo stesso di evocare continuamente ed inevitabilmente nebulose figure – feroci o dolcissime che siano – che ci appartengono nel profondo. Voler ad ogni costo prendersi il merito di mettere ordine tra i piani che si intersecano simultaneamente sarebbe ingiusto, tuttavia si può osservarli e riconoscere i contorni, le sagome degli incastri.

“Fatica” è la parola che connota il film sin dalle prime scene: Margherita è una regista nervosa e insicura, a cui la Buy ha saputo dare con ironia e piglio alcuni atteggiamenti tipici di Moretti svelando così, sin dall’esordio, il gioco metacinematografico.

Ma Margherita potrebbe essere una delle tante registe insoddisfatte di sé che affollano il mondo se Moretti non avesse invece un’idea ben precisa: Margherita è Nanni Moretti, è il Nanni Moretti sofferente che proietta se stesso continuamente in ogni personaggio, ma che profondamente teme se stesso.

Fatica. Tanta fatica, ma non si tratta assolutamente di una fatica tediosa perché Nanni Moretti non cede – da regista, quindi stando accanto alla storia che racconta – ad uno sviluppo esasperatamente intimistico, anzi: Margherita non è mai sola, nemmeno quando si ostina a cercare di separare se stessa dagli altri.

Non è sola perché accanto a lei c’è il Nanni Moretti che critica se stesso cercando positivamente di invitarla/invitarsi a “spezzare gli schemi” e si tratta del Nanni Moretti interprete che ritaglia per sé il ruolo di fratello disilluso che non rinuncia mai alla tenerezza: Giovanni preferisce cercare il contatto con la sorella direttamente, piuttosto che accontentarsi di ciò che lei offre dando in pasto ad un pubblico esigente, ma profondamente disattento, una versione edulcorata di sé.

Non è sola Margherita perché accanto a lei c’è Vittorio di cui rifiuta l’amore e che, però, ferisce il suo orgoglio; Enrico Ianniello con la sua interpretazione pulita rende il suo personaggio un uomo sicuro di sé, spiazzante nella sua normalità che per questo si impone senza compromessi.

Non è sola Margherita perché tutti i membri della troupe non fanno che seguirla silenziosamente, cercando di assecondarla e forse, proprio per questo, tradendola.

E la madre? La madre è la figura di riferimento che si sta spegnendo. Margherita sa, dopo il coraggioso atto di accusa di Vittorio, di non essere un punto di riferimento per alcuno e questo significa potere sempre aspettare che qualcuno ritorni (proprio come dice la canzone di Cocker) ma non essere mai attesi.

Il dramma non è tanto la morte quanto la certezza che gli altri nella debolezza, nell’abbandono e nel dolore riescono sempre a comunicare, mentre Margherita vive il suo struggimento sola, senza volere cercare consolazione né negli altri né in se stessa: il Moretti regista costruisce tutto questo con inquadrature mai vuote, sempre corali e materiche. Il vero lutto da elaborare, forse, è la perdita del senso di sé tra gli altri e non tanto la morte annunciata di una madre sofferente e pure sempre dignitosa e pronta ad amare, interpretata da una straordinaria Giulia Lazzarini.

Così è la vita ad invadere il set, è il dolore ed il senso di impotenza ad attraversare i gesti, gli sguardi della protagonista a cui Margherita Buy si accosta con grande sensibilità ed equilibrio senza cedere al facile melodramma riuscendo invece a creare la tensione di chi vive nel terrore di rimanere incastrato nello schema che ha costruito per spezzare gli schemi precedenti e che, ritenendosi profondamente inadeguato al vivere con gli altri, preferisce attribuire agli altri la propria inadeguatezza.

È John Turturro ad interpretare il fool, l’istrione, l’artista vagamente decadente che cerca di continuare a comunicare se stesso nonostante debba anche cercare di nascondere la propria malattia: e Turturro sa essere disarmante nella vitale comicità, nello slancio con cui affronta il suo ruolo.

C’è l’illusione, c’è il dolore. Ci sono il cinema e la scuola. C’è la memoria. Ci sono il sogno, l’incubo, la realtà che si mescolano in un impasto omogeneo e compatto nel montaggio di Clelio Benevento.

E poi ci sono le ultime battute, ma quelle non si possono riassumere, perché nello sguardo atterrito di Margherita c’è il peso della responsabilità di chi resta ed ha paura. Ma non della fine, né del nuovo cominciare. Solo paura di “esserci”, di essere tra gli altri e della consapevolezza - conquistata con fatica e sofferenza – di dovere essere tra gli altri.

Così “Mia madre” di Nanni Moretti non si può davvero definire, fino in fondo, soltanto un film autobiografico: perché questo senso di smarrimento, questa insicurezza sono ormai tanto universali che se non ci fosse il cinema potrebbero davvero rischiare di non essere riconosciuti quando ci si trova ad esserne attraversati, troppo distratti come siamo a cercare di difenderci dall’amore che potremmo perdere o temiamo di non meritare.

 

Written by Irene Gianeselli


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