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Mia madre: Nanni Moretti e l’inadeguatezza (di tutti noi)

Creato il 18 aprile 2015 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

“Tutti pensano che io sia capace di capire quello che succede, di interpretare la realtà, ma io non capisco più niente.” (Margherita)

mia-madreIl caimano, Habemus Papam, Mia madre: la trilogia morettiana dell’inadeguatezza. Nel primo di un uomo ridicolo nella vita privata e nel lavoro, nell’affrontare un amore finito e nel dirigere un film su Berlusconi che non sente suo. Nel secondo di un cardinale eletto Papa, che sa di non essere tra quelli che possono condurre, ma devono essere condotti. Nel terzo di ciascuno di noi.

Mia madre chiude un trittico che rafforza e consacra l’autorialità di Moretti. Se non volete definirlo poeta dell’inadeguatezza, quantomeno dategli dello scrittore. Un’inadeguatezza che in realtà già urlava nei suoi primi film, su tutti Io sono un autarchico (“No! Il dibattito no!!!”) e Ecce bombo (“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”). Un’inadeguatezza che stavolta esce e scende dallo schermo e di siede di fianco a noi, di fronte a noi. Nanni Moretti mette da parte l’attenzione sociale e politica presente fino al Caimano e torna a sedersi nel pubblico, come già aveva fatto con La stanza del figlio, nel quale interpretava Giovanni (de-contrazione di Nanni), psicanalista che perde il figlio e a seguire la capacità di curare gli altri. In Mia madre, dietro lo stesso nome, quel personaggio ritorna: Moretti implicitamente veste i panni di “psicologo della sorella”, ovvero è per lei il medium tra la realtà e quel set che è sineddoche del cinema (“Margherita, non so se hai capito, mamma sta morendo…” le dice uscendo dall’ospedale). Ma rispetto al film che gli valse la Palma d’oro al Festival di Cannes 2001, stavolta Moretti non fa i conti con un dramma di fiction che potrebbe capitare a ciascuno di noi, ma con un dramma reale, di matrice autobiografica, che capita inevitabilmente a ciascuno di noi. Mia madre è il film di Moretti, ma anche il film di ciascuno di noi. Sua madre è nostra madre, nonna o qualsiasi altro parente che il corso della vita prima o poi, volente e nolente, ci toglie. Moretti legge e interpreta il suo cuore, che è anche il nostro. È quindi il Moretti più sincero, leale, pulito. Se ne La stanza del figlio poteva pescare a mani piene e con tono melo-drammatico nel dolore più atroce per una coppia di genitori e per una famiglia, in Mia madre non può “giocare sporco” perché ad essere toccate sono le sue corde personali, la sua sen-si-bi-li-tà (come sillaba il personaggio di Turturro nei confronti di Margherita, alter-ego di Moretti). Non strumentalizza né se stesso né lo spettatore; il tema è troppo doloroso per sconfinare tout court nei toni del cinema.

Mia madre è un Moretti che torna ad ancorarsi alla realtà (anch’essa reclamata dal personaggio di John Turturro). Ma allo stesso tempo è il suo film più onirico, denso di passaggi che sconfinano nel ricordo, nell’immaginazione, nel sogno (che si fa incubo). Il montaggio di Clelio Benevento salta senza alcuna avvisaglia tra mente e mondo reale, fino a confonderci, fino a negarci la comprensione del “posto” dello spettatore, mischiando tempo della storia e tempo del discorso come raramente nella filmografia di Moretti.

Parlavamo di trilogia, in apertura. Una trilogia omogenea non solo dal punto di vista contenutistico, ma anche narrativo. Come già nel Caimano e Habemus Papam, Moretti sviluppa la vicenda su due binari: da un lato quello della vita privata, di un amore che si è spento (Il caimano), di una scelta “altrui” difficile da accettare (Habemus Papam), di un genitore che se ne sta andando (Mia madre); dall’altro quello “sponda” dell’arte, del cinema (Il caimano e Mia madre), del teatro (Habemus Papam) in cui sperimentare una scissione di sé, un sé altro, diverso, forse più confortante perché non reale.

Registicamente è più o meno sempre il solito Moretti. O meglio ripropone delle costanti, come l’inizio meta-cinematografico (si veda l’inizio de Il Caimano coi filmacci realizzati da Bruno Bonomo) o la cantatina in auto (qui però trasfigurata in toni più goliardici ed extra-familiari). Non ritorna, però, quella macchina da presa/spola che ne La stanza del figlio tesseva la tela del lutto attraverso i corridoi di casa Sermonti. In Mia madre la mdp osserva i personaggi, sempre più da vicino, come dimostrano i ripetuti carrelli che impercettibilmente si avvicinano a loro o il primissimo piano degli occhi di Margherita. È un Moretti meno verboso e meno sapientino, che scende nella penombra dell’animo umano come rivelano le molteplici inquadrature buie, assolutamente atipiche nel cinema morettiano, affidate alla tenue luce di una abat-jour.

La prova del cast non vede sbavature. Margherita Buy e Nanni Moretti interpretano se stessi, ruolo in cui eccellono, incarnando alla perfezione quel mantra più volte ripetuto da Margherita: “L’attore deve stare accanto al personaggio”. La Buy è bravissima, enfatica quanto deve, commovente al punto giusto. Moretti, invece, porta avanti quella sua recitazione apparentemente disinteressata, quasi impenetrabile, ma in realtà ferita di sentimenti che vengono a galla quando la voce gli si incrina e spezza. Da sottolineare come una volta tanto non annebbi il film con la sua ombra da primo attore. Sceglie infatti per sé un ruolo marginale, a lato, sfrondandolo di quel gusto saccente, invadente e colmo di super-ego che da sempre infastidisce e diverte il suo cinema. O se vi ricorre, lo confina nel sogno, nell’immaginazione della protagonista (vedi la battuta “Margherita, fai qualcosa di nuovo, di diverso… dai, rompi almeno un tuo schema, uno su duecento!” che ricorda tanto la tragi-comica arringa a D’Alema in Aprile).

Nel ruolo della madre c’è una gigantesca Giulia Lazzerini, tenera, sofferente, amorevole e disperata, personaggio in cui ciascuno può scorgervi la propria mamma o la propria nonna. Dulcis in fundo, John Turturro interpreta l’attore americano Barry Huggins, figura che camuffa una forte componente malinconica e riflessiva dietro una maschera spassosa che apre i polmoni del film.

Insomma, Mia madre è il Moretti più sincero e umile di sempre. Un calco delle nostre vite e dei nostri sentimenti sospesi tra inadeguatezza e stordimento di fronte alla vita come alla morte.

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