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"Milano città all'aperto"

Creato il 30 giugno 2014 da Giuseppe Avignone @gavignone

L’ora è tarda ed il caldo opprimente. Non riesco a dormire e penso alla stanchezza che il giorno seguente mi assalirà in ufficio. Il tempo passa e nulla cambia: l’afoso giugno milanese sta uccidendo il mio sonno notturno. Che stupido sono stato a non aver fatto installare il condizionatore come avevo pensato qualche tempo fa. E’ vero, non costava poco ma era indispensabile in questa stagione. Mi alzo, apro la finestra ed aspetto che una leggera brezza accarezzi la mia pelle nuda.Niente, neppure la corrente sembra poter migliorare questa infuocata notte e i rumori provenienti dalla strada hanno azzerato definitivamente la possibilità di dormire. Penso. La stanchezza a fine nottata mi assale e riposo gli occhi prima del suono della sveglia. Una colazione fantasma, qualche parola qua e là prima di dirigersi verso il posto di lavoro. Strada diversa ogni mattina per variare i punti di osservazione e nutrire la curiosità dei miei occhi assonnati. Arrivo in Porta Venezia e proseguo sul cavalcavia. Mi fermo al semaforo.Osservo lo "spettacolo" sulla mia destra: una fila di corpi quasi immobili sotto gli alberi che costeggiano la strada. Qualcuno si muove, altri spostano indumenti usati come cuscini o addirittura come lenzuoli. Una ventina di ragazzi, tutti di colore probabilmente provenienti dall’Africa, hanno trascorso la notte o parte di essa a terra in mezzo al rumore di uno dei tratti più lunghi – per le corse di macchine e moto – di Milano città. Come avranno mai potuto dormire o soltanto chiudere gli occhi senza il disagio del fracasso, della polvere o di quello che la strada “sputa” verso i suoi lati esterni? Uno di loro osserva la mia incredulità e mi sorride, come se avesse percepito le mie domande. Quel sorriso è la risposta ai miei dubbi: il caldo non è un problema perché sono abituati a vivere uno accanto all'altro, non solo per una questione di spazio ma perchè bisognosi di quella umanità che in ambienti “freddi” ed in terra straniera risulta spesso rara, ed il frastuono sdraiati sul ciglio della strada non è un fastidio perché rappresenta quel vociare “contro” a cui sono avvezzi e che nella maggior parte dei casi li confina ai margini della società. Scatta il verde, ma non ho la prontezza di ripartire: attendo piacevolmente il prossimo turno. Penso al condizionatore e al rumore del vialone sotto casa e mi sento a disagio. Mi accorgo di essere in ritardo e inserisco la marcia, volgo un ultimo sguardo verso quel dormitorio ambulante ed incrocio nuovamente lo sguardo del ragazzo nero. Alza la mano, sorride e mi saluta, rispondo timidamente e riparto. Nel successivo kilometro che mi porta in ufficio penso all’occasione persa: quella di stringere la sua mano tesa e condividere le sue emozioni allacciandomi ad esse, come gli alberi di questa strada si intrecciano con le storie improbabili di tanti adulti-bambini, alla costante ricerca di una speranza.

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