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Creato il 24 aprile 2014 da Cicciotopo1972 @tincazzi
 

Matthew Vandyke sta presentando in matthew-vandyke-pkt-machine-gun-sirte-libya-warquesti giorni al Tribeca Film Festival un film sulla sua esperienza nella rivoluzione libica intitolato ‘Point and shoot‘ (precedentemente chiamato ‘Run and gun). Ha inoltre realizzato un corto di 15 minuti sulla rivoluzione siriana, ‘Not anymore: a story of revolution‘. Fin qui niente di male. Un filmaker che fa il suo lavoro. Il problema è che Vandyke non è un filmaker, non è un giornalista ma, come si autodefinisce, “un combattente per la libertà”. Uno cioè che ha imbracciato le armi per sostenere una causa.

Il suo nome uscì quando ero a Tripoli come corrispondente. Venni contattato dal Comittee to protect journalists in merito alla sparizione di un giornalista americano a Brega. Vandyke, appunto. Mi chiesero di chiedere ufficialmente al governo libico una risposta in merito alla sua sparizione.

Insieme a lui almeno altri 4 giornalisti vennero catturati a Brega (Clare Gillis, James Foley,Manuel Varela (conosciuto da tutti come Manu Brabo), e Anton Hammerl Hammerl, sudafricano, si venne a sapere dopo mesi che era stato ucciso sulla linea del fronte e seppellito in un luogo non identificato nel deserto libico. I tre vennero liberati dopo un mese e mezzo di prigionia. Su Vandyke invece il silenzio più assoluto.

“Non abbiamo nessun giornalista detenuto nella carceri governative”, disse il Ministro degli Esteri Khaled Khaim. E non mentiva. Infatti Vandyke non stava facendo il giornalista ma il mitragliere su un pickup in una brigata ribelle. Di lui non si seppe più nulla fino alla liberazione di Tripoli ad agosto 2011. Era nel carcere di Abu Salim in isolamento. Il tempo di riprendere fiato in un hotel di Tripoli e tornò a combattere partecipando alla presa di Sirte. Wikipedia lo definisce un ex giornalista, un filibustiere e un filmaker.

Il CPJ ovviamente si incazzò e non poco. In un pezzo pubblicato sul blog del direttore esecutivo dell’organizzazione, Joel Simons, si scrive “In many parts of the world, journalists who are captured by rebels or governments are accused of being spies. CPJ has condemned government intelligence agencies that use journalists as informants or allow their agents to use journalism as a cover. Even the CIA has pledged not to do this because it recognizes the risk it poses to the work of journalists in conflict zones… Pretending to be a journalist in a war zone is not a casual deception. It’s a reckless and irresponsible act that greatly increases the risk for reporters covering conflict”.

Morale della favola, Vandyke torna in Siria e dice di voler realizzare un documentario. Ho avuto con lui una chiacchierata via mail. Sostiene di non essere un giornalista e di poter fare quello che vuole e che è andato più volte per conto del Free Sirian Army a svolgere non dichiarate mansioni. Gli ho chiesto se non pensa di mettere in pericolo la vita di centinaia di giornalisti con il suo ambiguo modo di fare. Non ho ricevuto risposta se non “ma io non sono un giornalista”

Sì, è vero, prima di lui ci sono stati giornalisti o scrittori (da Byron a Hemingway o Orwell) che hanno imbracciato le armi. La storia è piena. Ma siamo nel 2014 e il giornalista dovrebbe differenziarsi dallo scrittore, dal patriota e da chi ricerca adrenalina e successo. Tanto più oggi che i media sono diventati non necessari quanto prima dell’avvento di internet e considerati target legittimi da parte di chi, appunto, pensa che gli operatori dell’informazione siano delle spie e che per raccontare una storia si debba imbracciare un fucile e prendere una posizione.


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