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Modelli culturali di asocialità e fallimenti generazionali: Amici miei di Mario Monicelli e Mia madre di Nanni Moretti

Creato il 12 maggio 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Due film italiani apparentemente molto diversi, riflessi di stagioni storiche lontane tra loro: i postumi culturali del miracolo economico, da un lato, e l’epoca della crisi socio-economica attuale, dall’altro.

Gli universi simbolici dei due lungometraggi si focalizzano però su figure parimenti perse in smarrimenti autolesionistici e rifiuti dell’altro e del diverso, sulle quali si proiettano le ombre allarmanti di corali fallimenti generazionali: il borghese figlio di un’avida e crudele società del benessere (i personaggi principali del film di Monicelli) e l’intellettuale contemporaneo, impegnato nella sua snobistica crociata contro i diktat e le masse acquiescenti di una cultura postmoderna e spettacolare della precarietà materiale e della tendenziale perdita di ogni senso di realtà (la protagonista di Mia madre, genitore assente e regista d’impegno civile, coinvolta nella lavorazione di un film su uno sciopero di giovani operai di una fabbrica a rischio licenziamento, e proiezione di Moretti stesso e del suo percorso e pensiero critici ad oggi).

Amici_miei

Al centro di Amici miei c’è dunque il cinismo del “senso comune” e della nuova borghesia affermatisi con il boom, messo in scena come burla incontinente e ciecamente autolesionistica verso il prossimo.

Il racconto cameratesco delle “zingarate” dei cinque cinquantenni si fa così diario delle occasioni ostinatamente mancate di una vita, breviario simbolico della rovina antropologica di ben più di una generazione di una classe sociale culturalmente sempre più omnipervasiva all’interno della nostra collettività: un film che, dietro le sue note di allegria posticcia e di tronfia volgarità, nasconde l’humus generale di una fuga dal “sentire” e dal “patire”, dall’esserci per l’altro, dall’essere presenti a se stessi nella disperazione (e nel pianto) al rendiconto e al fallimento di un percorso esistenziale.

Mia madre evoca viceversa scenari di distruzione sia della formazione sia della cultura intellettuale, intese come occasioni sinergiche per educare alla vita e alla socialità i giovani.

Mia Madre

È un’opera che parla fra le righe di una società che ha smarrito o annientato i propri spazi socializzanti di calore ed empatia, i propri maestri e, insieme ad essi, il proprio “spirito materno”: quello che guarda alle nuove generazioni con sorriso, che le nutre e le fa crescere, infondendo pazienza, capacità di adattamento e di applicazione; un archetipo incarnato non a caso dal personaggio della madre anziana e moribonda della protagonista, che aveva svolto in passato, con passione e dedizione, la professione di insegnante liceale di lettere.

Parallelamente, nell’universo semiologico del film in questione, la figura-guida dell’intellettuale (Margherita Buy e Moretti stesso, auto-offerti paradigmaticamente quali simboli di atteggiamenti della nostra intellighenzia da tempo diffusi) non può fare a meno di constatare queste derive e perdite simboliche del tessuto sociale e dichiarare il proprio scacco nel rapporto analitico e dialettico, fin troppo snobistico e respingente, instaurato con una cultura postmoderna giovanile e attualmente allo sbando, che non ha voluto e non è riuscita a intercettare e cambiare.

Francesco Di Benedetto



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