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Molesini Still Life (Officine d’Autore) – Intervista di Alessandro Gabriele

Creato il 04 marzo 2014 da Wsf

«Dovevate perciò rendere orribile il vostro bel mondo ordinato,
affinché questo vi guastasse il piacere di vivere troppo fuori di voi.
(C.G.Jung, Il libro Rosso – Liber Secundus, pag.116)

m1*
Non c’è poesia e non c’è prosa, ci sono autori e molto altro, ci sono condizioni di spazio mediale che ne determinano la profondità incidente del segno, c’è una società di umani pressapoco che gira il timone delle cose del mondo, intorno. La dimenticanza e la riduzione a caos colpisce tutti, pochi autori si raccolgono in pacchetti di grida che escono nel reale tangibile, salgono e scendono tra cielo e terra mostrando una possibilità, un percorso, una luminescenza di veglia che sta dietro le parole ben appostata nei modi, nel respiro, nelle ferite che si coltivano come fossero orchidee e come se queste non fossero che da svendere.

*

-Al nostro zoo oggi-
al nostro zoo oggi ghepardo ghepardo dove stai andando.
Torna alla tua zona ghepardo ascià torna là altro cespuglio
di fiori odori dell’erba verde di cattura sopra vivenza
mangia questo carne poi invento un canto che calmi
la tua ricerca di emozioni semplici, velocissimo gattero
che vai più forte delle auto in superstrada affi-peschiera
se uscivi non mangiavi nessuno, vero, stavi lì certo perso
a chiederti cos’è un recinto della pioggia in prima vera

*

Questa luce persistente, da molti punti di vista, rifiuterebbe anche di essere compresa, se l’atto della comprensione si riducesse a un mero recinto di pascolo affermativo/negativo. Certe volte invece non si è proprio nulla, nulla che non sia un saliscendi di esistenze fuori dalle frasi, le parole sono solo chiavi inglesi che riparano gli snodi del tracciato, non c’è alcuna interpretazione possibile, solo flusso.
Pensavo anche a Franco Arminio scrivendo queste frasi, pensavo soprattutto a Silvia Molesini: due autori diversi come una coppia di antitesi, stretto e antico Franco, larga e in perpetua mutazione Silvia, che tuttavia condividono alcuni fondamenti di metodo.
Entrambe scrivono senza vestirsi, sono autori di confine che saltano naturalmente tra poesia e prosa, incisione e volo, intimo e sociale, solitudine e contagio da finestra sociale. A entrambe piace rischiare, Franco e Silvia sono convinti della “necessità” di sporcare la lingua che usano, sostenuti dal basso da un desiderio di sovrapporsi il più puntualmente possibile al percetto primario, così come questo nasce nell’intima lontananza pre-frontale della materia.
Silvia l’ho letta la prima volta intorno al Duemila, albeggiava ancora la Rete, i popoli espressivi li incontravi facilmente raggruppati dentro i pochi snodi collettivi dei forum di scrittura. Aveva già tutto Silvia, lirismo e frana e sequenze uniche di interroganti percussivi, l’enjambement usato come un tamburo ad accompagnare, il neologismo come una tastiera evocativa di molti spiriti, l’istinto animista di inseminarsi verso ogni ganglio vitale riflettente.

*

Pascale Francesca
impietritemi davanti
occhi celestissimi (loro)
un serpente, die serpenti
Francesca no, è bruna castagno,
donna toro.

Pascale si avvicenda e dice
“il tuo finto coraggio”
dice “baby”, dice
“attenta a Boston”
che di Boston si muore, lei sa
quei parcheggi incustoditi :
il culo dei building:
smalìziati
amore.

Perché io sono una Pascaleamore.
Le ciocche quasi bianche
la bambola mia kajal
l’uomo minimo che la fa e
il tempo fra di noi che ha
una gran bella grana b/n matt.

Che la carta di Pascale è mia
fatta pietra devant moi
alanina
blu timina
infinitamente corporea
mia puttana mia puttana puttana mia, mia bimba mia, bambina.

Adesso vedi
Pascale Francesca
impietrite (a me) davanti
glauche cerulee cyan.

Francesca no, è cespuglio, è nera
non fa che cercare motivi
e dice
“vero che tu ci credi che si guarisce?”
e crede, lei, crista, rossa
nei precursori dell’io
fossero garanzia d’amore.

Che io sono un amore di Francesca
ai piedi della croce
ho pianto pianto magenta
e per ogni lacrima cadere
1) un segno consacrato
simbolo
2) un simbolo fatto
cielo
e mia anima mia amina anima mia e bimba mia e sfacelo.

*

Pascale Francesca è una delle liriche più conosciute di Silvia, la si può citare quasi come un manifesto attivo, “programmatico”. Oggi i testi di Molesini sono reperibili in una quantità tale di stazioni web che è persino inutile enumerarle tutte. Daremo qualche accenno mirato verso la fine, ora chiacchieriamo un po’.

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Silvia, il tuo disperderti fin dentro i diverticoli più remoti della rete è un istinto illogico o una caccia mirata?

M: Certamente cerco qualcosa, una sorta di visibilità, luoghi fertili, contatti e confronto. E anche mi muovo senza criterio maggiore, spesso guidata da un demone che non vuole distinguere. Ma l’elemento informante di questa “dissipazione” è, credo, un aderire al meccanismo di rete, pulsionale ed insieme ideologico: mi sento guardata da qualcosa che posso immaginare a mio piacimento e lo sposo pienamente nel suo confermarsi fuori dal potere stabilito dalla stratificazione degli apparati monetizzati.

Una parte di te sembra tendere a un limite di perfezione formale, giocando anche a fermarsi un passo prima magari, un’altra parte versa il contenuto immediato, dionisiaco, preoccupandosi solo che si distribuisca bene sul territorio del comunicabile. Come funzionano in te, ammesso che tu riconosca questa rappresentazione dinamica, questi due vettori?

M: Sì, li riconosco, con i loro antitetici: la rottura dell’involucro e l’organizzazione cognitiva del portato. Due parti che continuamente si confrontano e anche confliggono, per dirla breve tutto il materiale scritto si gioca sulle possibili combinazioni di questi quattro tra loro (è stato possibile pensarmi senza uno stile, sono molte). Ma credo si possa parlare di struttura, vedo un (chiamiamolo) percorso nell’insieme testuale che disegna figure derivate da una specie di ceppo identitario. Quindi questi due vettori e i loro opposti contribuiscono al segno, temo in egual misura.

*

All’uscita dall’incantesimo vanno in fila le cose
che si autodenunciano poco dopo la porta :
c’è il grande poeta illuminato dal Morte,
il fido che lo segue nominando gli enigmi.
Ci sei te, un bugigattolo recalcitrante pare
e la lunga sfera che si è inventata tutti i
sostenendo fosse possibile ellissarsi in muta-
re e poi c’è questo piccolo corto sordo lì
che eleva al quadrato e moltiplica tre, e
la bella donna quieta quand la si mi re
furiosa invece sulle linee atonali e molte
altre creature dall’estatissi-autunnate. Le
principali mettono in causa-affetto amore
disciplina e sguazzamento poi vedono loin
ed è l’improvvisarsi santi unti e honorées
per il caso spicciolo che l’ alti parla al te:
ce n’è una che te la auguro non saper mai
da che parte sputa, il bigio invece contento
che ha due capre da mungere: l’esplodimon-
do dopo la tazzina.

*

Alcuni poeti si credono collegati direttamente a un seno celeste, indiscutibile e indivisibile, vogliamo invece parlare di come nasce l’ispirazione, demitizzandola anche un po’? E’ sotto la doccia, in un’ora di lavoro, nelle more dell’insonnia, in certi languori insanabili che fanno tremare le porte chiuse, dove e come nasce il tuo segno?

M: Mi è capitato di scrivere al bar, riportando le frasi degli avventori e bevendo con loro. La notte è il luogo che preferisco. Sentirmi guardata, come ti accennavo sopra. Travolta da un sentimento violento ma anche asciuttissima, come dovessi redigere un rapporto. Poi completamente avvolta dalla natura, come mi pare spesso accada in genere, o dopo aver letto un testo complesso. Alle volte è una frase semplicissima ma ficcante a dare il via. Ma non centrerei il mio scrivere sull’ispirazione. E’ una specie di discorso/canzone che sto portando avanti da “sempre”, diciamo identitario, a me conformato. Sembra brutto detto così, e il senso della sua inutilità mi è, soprattutto ultimamente, piuttosto presente. Ma tant’è, e diventa materiale di lavoro.

La poesia si può editare? Solo l’autore o altri, e come può farlo? Quali sono secondo te le linee “critiche” principali, se ritieni che ci siano, secondo cui si possa valutare con un minimo di oggettività un testo poetico?

M: Penso di sì, come qualunque testo. Resta che con la poesia (in tutte le sue forme) si vanno a toccare elementi esiziali, nucleari, fragili se intaccati. La stessa operazione di sintesi implicita in quel tipo di scrittura è già un lavoro pieno di presupposti che, anche se errati (per quello che voglia dire), rendono un unico difficilmente rettificabile. Il bel testo di Dante Isella, L’idillio di Meulan, riporta una sorta di editing fatto da Gadda a Montale e le riflessioni di Contini sull’analisi delle varianti che permetterebbe comunque di individuare il nucleo duro autoriale.

Da un altro lato, si diventa autori anche perchè si cede a una pulsione “narrativa”, che in alcuni nasce dalla persistenza ossessiva del dialogo rappresentativo interno; quando questo coro trova una forma di quadratura espressiva, ci si scopre talvolta autori semplicemente mettendo giù nel tempo ciò che stando dentro era classificabile solo come sintomo. Il problema può diventare troppa “ispirazione” da gestire. Che rapporto hai coi tuoi stati creativi e con la patologia quotidiana delle storie personali che interseca tutti?

M: Non mi pongo il problema dell’eccessiva ispirazione, come accennavo più su. I testi contribuiscono alla realizzazione di un disegno, anche i meno buoni. Nella nostra corrispondenza iniziale ti dicevo quanto mi fosse difficile scegliere: indubbiamente il problema pratico/organizzativo esiste, si fa sentire anche in termini di fruibilità. Come ogni patologia, volessimo inquadrarlo così, grande beneficio trae dall’incontro con l’altro, chi ci sceglie.

Strutturalmente, il tuo Significante è molto attivo, sale e scende tra i livelli batesoniani spiazzando e comunicando una consapevole vertigine. E’ anche un po’ una deformazione professionale, questa, o è tratto tuo istintivo?

M: La professione di medico psichiatra e la poesia si sono mosse assieme. Non so bene, sicuramente non ho rapporti facili con nessuno di questi due mestieri. C’è una formazione lunga che solo in parte ha dato risposte a domande primarie che mi parrebbe riduttivo ricondurre ad istinti. Continua.

Il tuo Significato si esprime scavando con necessità negli orti del neologismo, ne fa quasi una missione, talvolta ospiti sequenze che sembrano davvero i costituenti di una neolingua. Ti è stata fatta anche qualche “dotta” obiezione, talvolta, così par di capire da un’intervista che ho trovato in rete. Vuoi riassumerci come la vedi e la senti tu, al riguardo?

M: Penso alla lingua come ad un attrezzo. Il suo uso deve servire la costruzione della cosa che ho in mente. Ovviamente a mia volta sono (la cosa che ho in mente è) serva della lingua e non posso uscire dal codice, non esisterebbe né significato né significante senza quest’interazione. Faccio quello che posso.

*

*

Ciò che scrivi ha un tratto selvaggio, quasi logo-patico, se mi permetti l’esagerazione, eppure scorre su binari narrativi, certe volte s’incontrano vere stazioni di prosa in ciò che esprimi, il tuo progetto Castello lo testimonia ampiamente. Ti pare sana e/o necessaria la vecchia distinzione fondante tra prosa e poesia, dopotutto, considerando anche che tutti siamo ormai collegati a flussi omogeneizzanti di presenze, fisiche e mentali, che ci avvincono dai nuovi giocattoli mediali?

M: Ogni distinzione ha senso, è utile, ha valore informativo. Quando studiavamo le cellule si davano nomi ad aggregati conformati solo in virtù della capacità discriminativa del microscopio ottico, apparentemente inutili in seguito all’avvento dell’elettronico. Ma quelle forme c’erano, davano notizia dell’esistenza di quella particola in “quel” modo e in quel modo dimensionate parlavano. Altre narrazioni/forme possibili cambiano i nomi alle cose, nel tentativo invincibile di rappresentarle per quello che sono, ma non è detto che a una visione più precisa corrisponda l’intero.

Credo che come comunicatori di rete, condividiamo ormai più di un quindicennio di esperienze nei quartieri espressivi del cyberspazio. Ricordo quel bellissimo saggio di Pierre Levy, Il Virtuale, in cui si concludeva che la nuova esperienza nascente avesse la solita benedizione del demone bifronte: un’incredibile opportunità per l’uomo, se si fosse riusciti a intenderla e sopportarla come una tensione aperta non circoscrivibile, oppure un’occasione sprecata, con la deriva di una riduzione ai confini dell’Ego e generazione di ombre. Chi secondo te sta vincendo la battaglia per il controllo della rete-web, la luce o l’ombra? I poteri forti o la nobiltà di un collettivo sociale non-schierato?

M: Mi fai pensare a: Rifrazioni scomposte su corpo 12, la narrazione che abbiamo condiviso, pensata da Guido Conforti, testi seriali e interagenti tra loro nella tessitura di una rete di ragno. C’erano zone di separazione invalicabile e le sinapsi, che invece permettevano il contatto. Le personalizzazioni creavano l’estensione della rete ed il contatto faceva sì che si potesse catturare la mosca. Credo si debba stare nel compromesso, la rete ha comunque in sé gli elementi per poter gestire grandi autonomie.

Le Rifrazioni 12 sono state un grande esempio di riflessione attiva sull’esperienza della contaminazione espressiva in rete. Avremmo dovuto, secondo te, fare un passo consapevole in più per rendere “leggibile” il mutamento sinaptico dell’organismo che abbiamo scritto, o era sufficiente così?

M: L’esperienza del “romanzo a rete” concepita da Guido è stata uno dei risultati più fertili della nostra pur esistente aggregazione nella rete informatica, a mio avviso. Così come altri percorsi paralleli come le riscritture seriali collettive, il riportare davanti agli occhi di tutti testi introvabili o difficili, la costruzione di blog di ampi respiro e intelligenza. “Rifrazioni” poteva essere reso più leggibile? Forse sì, io penso, aumentando il numero e la varietà delle sinapsi. O accorpando i singoli percorsi in capitoli ampi non direttamente integrati, come fa Bolaño, certo così mettendo in discussione l’intera architettura del progetto. Ma la vera leggibilità a questo tipo di esperienze la dà il farle entrare in un meccanismo diffusivo, cosa che non abbiamo fatto.

Che consigli ti sentiresti di dare a chi sta cominciando a scrivere e intende andare avanti oggi, lo dissuaderesti gentilmente? Quale strada complicata gli prospetti?

M: Ah, non consiglierei niente. La scrittura, come ogni cosa venga utilizzata per stare-nel-mondo, è un oggetto mutaforme.

Poco sopra, abbiamo sfiorato il concetto di “patologia”. Salutiamoci con un tributo ad alcuni padri o spiriti dispersi, secondo prospettiva. Avevano visto bene Jung, nello sdoganare un po’ la funzione patologica, e Hillman, nel rovesciare il tavolo dei presupposti clinici, oppure sono verità che all’Ego vanno somministrate in dosi minime?

M: La visione psicoanalitica ha nella sua stessa struttura gli elementi di questo supposto ribaltamento. Non credo Freud abbia del resto mai utilizzato questo termine, se non in quella magnifica chicca che è “Psicopatologia della vita quotidiana”, in cui parla di noi tutti nei nostri comunicativi inciampi. Jung allarga il campo di intervento con coraggio ma tutto procedeva comunque verso una dimensione di integrazione, anche progressiva, del mal-rimosso in quanto parte del Sé. Lo stesso concetto di crisi epigenetica, in tutte le sue declinazioni, come quello fondante del “transfert positivo irreprensibile”, veicolano grande attenzione e rispetto per la cosiddetta parte malata, che è funzione e accesso e barriera. Last but not least Jung bisogna leggerlo tutto, come stai facendo anche tu, perché roba così (e coltissima) non l’ha scritta nessuno.

*

L’autunno metodico posa accanto nebbie. A te, nel tuo poco segreto denso, appare come un mal di stomaco, potente, una morsa che stringe fino a tirarti su la bile.
Per questo Gravida sei amara. E cattiva, urli a gran fiato le quattro porcate che conosci, sbatti le porte scendi dall’auto-in-corsa trattieni il bicchiere. Ti rifiuti il pensiero, nella sua riflessione, lo spazio di mediazione e ogni altro filtro.
Per l’autunno Gravida sei grigia, invece, grigia del lago gocciolante che ti invade, attornia il nodo dello sterno, sfonda (per “fa da sfondo”) e illustra (per “mette in evidenza”) il tocco aritmico della punta che ha pestato il cuore (ci me ponse? dice il cuore). Non ti coricherai più con lui, brodo vapore, per scoraggiare reflussi e doglie. All’autunno che uccide il sole e gialla e rossa le foglie ai cedui ( per rianimare crisantemi ) dici:
- cosa fai di febbre e inedia, vecchio demonio, perché mi prendi l’anima, tu che nessuno la vuole, tu che moltiplica rimandi, tu che non aspetta niente, lei che sei accecante, lei che ti trascini dal bacino, lei che urgi come un cuscinetto scorticato
cosa vuoi di me allora, è evidente che un’anima non potrebbe interessare, questa cosina ridicola che non fa assolutamente nessuna cosa, l’ombrina dell’ombra di un cane, il picciolo del caco e la mai luminosa pietruzza blu.
Una miseria da far sbadigliare uno psicanalista.-
Ma lui, lui, sembra avere altra intenzione, un’idea diversa di cosa possa essere. E ti affascina e calma questo rimanere, suo, sparso, decaduto, impotente. Nelle frange della condensa, lungo le melme, sulle foglie del fico che macerano in pozzette: ecco un ricordo.
Qualcuno ti insegna a mettere a letto le bambole. Le copre bene bene, che non prendano freddo, e sta con loro finché non si addormentano. Il rumore della lavatrice è una ninna nanna sottile, tu osservi questa piccola situazione sospesa che ti diventa pensiero, possibilità di quiete e cura.
Lui HA un’intenzione diversa. Produce altri suoni dove si incontrano lepri, fagianelle e storlini. Lascia indisturbate le anatre e non raccoglie i funghi. Dimentica, sbiadito, i cattivi rapporti con gli altri, o li ricorda appena e poi non pensa a te, che non c’entri. Per te ha costruito una crocchia, si chiama “altrove”. E una barchetta, si chiama “storia” e ti ci ha vista salire, grassa d’ira e d’accidia col tuo groppo malato, e ti porta sul Sarca docile giù giù fino al Mincio, così, per sbaglio innamorato.

*

Molesini compone i suoi testi anche direttamente negli Status della finestra sociale, in interazione istantanea con la musica e con ogni oggetto del collettivo umano che popola la Rete e presso cui ama disperdersi.
Silvia è una scrittrice preziosa, ha raccolto il meglio di una prospettiva beat-dinamica, impegnata, reading-like, che era tipica di autori degli anni Sessanta e Settanta e si applica con convinzione a esprimersi nel reale di oggi utilizzandone ogni nuova modalità mediale che sorga, in questo ponendosi sulla cima di un’onda psicologica, artistica e comunicativa che scavalca i tempi e ogni gadget “post-” si voglia apporre all’esperienza dell’uomo nel domani interrogativo che si fa strada.
Rimane poco altro da dire che non sia un grazie sentito all’autrice, per la disponibilità a spendersi fuori dal ruolo, per la poesia, per le cose dette e per come sono state dette, per l’ombra di ulteriori domande implicitamente seminate.

*

Quando si ferma, Silvia la trovate qui:

nascitaemorte.altervista.org
myspace.com/molesini
youtube.com/user/molesini
soundcloud.com/molesini

Se volete osservarla in missione mentre crea, collegatevi a Facebook (una volta tanto, con un buon motivo).

(Silvia Molesini (Bussolengo 1966) ha pubblicato le raccolte Nuova noia (Ibiskos ed. 1987), L’indivia (Campanotto ed. 2001), Il corpo recitato (I figli belli ed. 2004), Lezioni di vuoto (Liberodiscrivere ed. 2006), Cahier de doléances (Samiszdat 2009), 13 algebriche mistiche (voici la bombe 2010). È presente in diverse antologie, su riviste letterarie e siti web (Le voci della luna, Filling Station, L’ortica, Critère, Niederngasse, Progetto Babele- Il foglio letterario- Historica, Absolute Poetry, Lettere Grosse, La dimora del tempo sospeso, Podcast di Poecast, La poesia e lo spirito, Private, Tellusfolio). E’ stata segnalata nel 2008 con Esanimando al Premio Montano e al premio Mazzacurati/Russo con Cahier corpo piccolo. E’ redattrice della rivista indipendente di poesia e teatro Niederngasse e di Vdbd. E’ coinvolta nel progetto di diffusione poetica orale Letteratura Necessaria curato da Enzo Campi. In rete sta lavorando a CASTELLO.)

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Castello è una sfiziosa ciliegina sulla torta di Silvia, una narrazione poetica tesa, difficile, emozionante, che a partire da se stessa tenta l’affresco di una psiche collettiva epocale.

http://silviamolesini.wordpress.com

articolo di Alessandro Gabriele – http://aereoplanini.wordpress.com/


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