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Autodidatta fieramente lontano dalla figura del cinefilo snob che si potrebbe immaginare, Xavier Dolan continua il suo percorso registico con "Mommy".
Quello che si vede sullo schermo è un caleidoscopio di immagini internate, soffocate all'interno del formato quadrato 1:1, che fa sentire tutto il peso di ogni gesto filmico.
Asfissiante nel suo deambulare ossessivo tra interni ed esterni, "Mommy" è cinema di pura, fragilissima potenza, in grado di raccontare un doppio morboso: una relazione madre-figlio che segue sempre la stessa dinamica, orfana di qualsiasi idea di vero riscatto, completamente incapace di guardare oltre da sé e rendersi conto che, al di fuori, c'è il mondo intero. Si aggiunge anche una terza, affascinante figura, che chiude ermeticamente un triangolo che sfugge all'esterno. Come un'isola (in)felice, immortalata da uno scatto che vorrebbe, ma non può, fermare il tempo.
"Mommy" dà l'impressione che il resto della gente, la realtà stessa, sia un fuoricampo forzato, incapace di entrare all'interno dell'immagine monadica, ristrettissima del trio. Questo mi pare uno dei punti di maggior interesse del film: la vita pullulante di emozioni, desideri, rabbia e ardori, dev'essere continuamente salvaguardata e difesa dal mondo circostante. E' come se Dolan volesse mettere in salvo il cinema e le sue ossessioni, con il bisogno assoluto di controllare pochi personaggi, di amarli perfino nei loro momenti più bassi: sfoca le immagini, circumnaviga il set, poi si ferma immortalando un gesto, una lacrima o un sorriso, e di nuovo comincia a muoversi.
La sua è la furia impazzita che appartiene a chi crea e distrugge immaginari con un solo colpo d'occhio. Ma è una furia gentile e umanissima, in grado di accarezzare i suoi personaggi nelle loro debolezze, idiosincrasie, in tutte le crisi reiterate - sempre uguali, sempre eccedenti, sempre sopra le righe - che li fanno cadere (per poi rialzarsi). In definitiva, "Mommy" è la più aperta delle opere chiuse: vuol bene al suo spettatore, lo fa sentire "uno di loro" (e mai il giudice di una serie di freaks). Dolan trascina gli occhi del pubblico direttamente nel cuore della scena, moltiplica i climax con un tale ardore da svuotarli: con far forsennato, irresponsabile e vitalissimo, porta avanti un film di puro, folgorante vitalismo, seppur racconti una relazione cieca e beffarda, che se infischia di tutto il resto.
Una volta compresso lo schermo fino alla claustrofobia, lo allarga improvvisamente urlando tutta la sua incosciente, agognatissima libertà. Lo spettatore torna a respirare, mentre davanti ai suoi occhi si alternano le immagini di un futuro ipotetico, una sorta di what if impossibile sommerso nella patina edificante dei sogni (un film nel film di chi mira l'impossibile).
Nel suo commistionare musichette pop, operazioni revival, drammi da camera e perfino un po' di (in)sana fantascienza emotiva, "Mommy" è un film che vibra, che pulsa, che ferisce e che diverte, perché è così selvaggiamente sfrenato da sedurre e inebriare come pochi. Forse è perfino un po' arrogante, ma con la voce salda di chi col cinema vorrebbe far esplodere i palazzi (per ricostruirli poi, per amor di gioventù, per sbornia di vita).
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