Magazine Lavoro

MORANDO CHE finì in tribunale per un film

Da Brunougolini

MORANDO CHE finì in tribunale per un film
Non poteva non approdare alla festa del cinema di Roma la memoria di un uomo, un giornalista che al cinema ha dato tanto. E’ Morando Morandini, l’autore di innumerevoli recensioni. Ospitate prima sui giornali poi nell’antologia annuale che porta il suo nome. Una specie di Bibbia che ha accompagnato la vita di tanti italiani. Per ricordarlo adeguatamente è stato proiettato un documentario curato con sensibilità e intelligenza da Daniele Segre, un regista noto per le sue opere sul mondo del lavoro ma anche per ritratti e interviste a personaggi che lo hanno incrociato. Tra questi c’è Morandini di cui era amico, filmato e raccontato a più riprese, lungo un percorso di sei anni, dal 2004 al 2010.
Il singolare titolo “Je m'appelle Morando - alfabeto Morandini” è suggerito dalla celebre battuta “Je m'appelle Garance”, inserita in “Les Enfants du paradis” di Marcel Carnè. E’ il ritratto di un uomo perennemente attaccato alla sua Olivetti, con due grandi amori: i libri e il cinema, due esperienze che si compenetrano come sanno i lettori di questo “magazine BookCiak”. I suoi non sono verdetti faciloni. Confessa la sua inquietudine e la sua lentezza nello scrivere. Spesso con un rigore che può apparire cattiveria.
E’ un giornalista geloso della propria autonomia. Nella sua schietta confessione a Segre non nasconde come consideri i giornalisti in generale solo in minima parte competenti e non asserviti. Una dura analisi, dettata da un amore severo per l’autonomia che dovrebbe compenetrare questo mestiere.
Lui era fatto di questa pasta. Lo confermano molti amici e colleghi nella affollata partecipazione alla proiezione (accolti dalla figlia Lia Morandini nonché dalla presidente della Fondazione Cinema per Roma Piera Detassis e dal direttore artistico Antonio Monda). E’ uno dei convenuti, Paolo Mereghetti (già suo collaboratore poi promotore di una pubblicazione simile a quella del Morandini) a ricordare come Morando fosse privo di una “cappa ideologica”. Quella “cappa” che spesso ha annebbiato anche cervelli di sinistra.
Un uomo libero, senza paraocchi, inciampato anche in assurde vicende giudiziarie, come quando viene portato in tribunale per aver definito come “sconsigliato” il film “Scipione l’Africano” . La sua assoluta indipendenza la si capisce, nel documentario di Segre, allorché si scaglia contro i cosiddetti film d’autore sovvenzionati, spesso affidati a giovani che si dichiarano “esordienti” e che spesso farebbero bene a non “esordire”.
Tali sue prepotenti stimmate non possono però farlo considerare come un qualunquista, un indifferente. E’ semmai vicino a personalità del suo tempo che rievoca, come l’indimenticabile Gianni Brera o quello che definisce suo maestro, ovvero il grande critico Filippo Sacchi. Eccolo d’altronde dichiararsi nettamente “liberalsocialista, alla Bobbio”. Certo è drastico sull’oggi con “una destra capace di tutto e una sinistra buona a niente”.
Senti nelle sue parole, curvo nello studio della casa, la nostalgia di una Milano d’altri tempi, la Milano di Gaber e Jannacci, fatta anche di buoni cibi e buoni vini. Tanto da proporre per il giorno della sua dipartita una cena festosa con “del buon vino”, fra i tanti amici della sua vita. Pagherà lui, promette. E ci lascia con un sorriso.
Bruno Ugolini

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