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Moriamo per delle idee, va bè, ma di morte lenta

Creato il 02 novembre 2010 da Andreapomella

Moriamo per delle idee, va bè, ma di morte lenta“Quello che ci fa illudere è questa linea di vivi nella quale ci troviamo, che avanza verso ciò che chiamiamo futuro solo perché un nome siamo stati costretti a darglielo, traendone incessantemente i nuovi esseri, abbandonando incessantemente gli esseri vecchi che abbiamo dovuto chiamare morti perché non emergano dal passato”. J. Saramago

Ho estratto questa frase da La zattera di pietra di Saramago pensando a Pasolini, ai trentacinque anni che oggi ricorrono dalla morte. In molti si chiedono cosa penserebbe Pasolini, se fosse ancora vivo, di questo paese sventrato dal triviale. Qualcuno dice che forse starebbe ancora combattendo per definire una norma di dignità. Ma in ogni caso, noi, come dice Saramago, li chiamiamo morti proprio perché non emergano dal passato. Tempo fa ho praticato anch’io questo gioco, ho immaginato come sarebbe Pasolini oggi davanti alla grande catastrofe della nostra incultura odierna. Il mio sforzo di fantasia, però, non ha saputo trarre niente di meglio che un ospizio per vecchi o per matti in cui un vecchio interdetto e considerato matto, la cui fronte odora di carta bagnata, tace senza più emozioni, perfino di fronte alle cure amorevoli di un’infermiera moldava. Non è quello che si dice un omaggio, è una mia personale presa d’atto, un po’ fuori dal comune, dettata forse dalle ragioni dello sconforto.

 

Alla fine resta sempre qualcosa

Pasolini è seduto al tavolo coi gomiti stretti. Ha con sé un panino avvolto nella carta stagnola e un bicchiere d’acqua. Il bicchiere è macchiato da un filo di saliva, una traccia sottile come una larva. Aspira le briciole del pane con un gesto fragoroso della bocca che ricorda i rumori che fanno i bambini quando risucchiano la minestra dal bordo del cucchiaio. La quiete sepolcrale della grande sala ricoperta dall’intonaco azzurro è rotta solo da questi fruscii colmi di dolcezza. Il 5 marzo il “poeta” – come lo chiamano ancora da queste parti – ha compiuto ottantotto anni. Per l’occasione gli infermieri della casa di cura hanno organizzato una piccola festa, il direttore ha fatto arrivare un vassoio di Claps, i biscotti friulani fatti col burro e con le mandorle. Gli altri pazienti hanno intonato una canzone. Da allora è passato quasi un mese. Tra poco sarà di nuovo estate e le falene torneranno a trepidare nel giardino fiorito. La bella Vera, l’infermiera moldava che a ogni scoccare di primavera lo accompagna spingendolo sulla carrozzina durante le sue passeggiate nei boschi, gli racconta dei suoi amori sfortunati, anche se ha il sospetto che lui non la stia a sentire, o che preferisca ascoltare le voci che gli risuonano nella mente. Vera ogni tanto solleva il fazzoletto per pulirgli la bocca, poi gli concede un sorriso benigno, perché le fa una gran tenerezza questo vecchio psicotico con le guance scavate e la pelle secca come quella di un uccellino cotto al sole. Lei è convinta che a ridurlo così sia stata la psicoterapia, ma lei non ha diritto di contestare alcuna diagnosi, in questo caso il problema terapeutico è tutto speciale. Se provasse a dire una sola parola a riguardo rischierebbe il licenziamento. Così preferisce accompagnarlo a guardare i papaveri che a lui piacciono tanto, quei piccoli fuochi rossi che spiccano nel verde del prato. Lui ormai non parla quasi più. Non sono stati i farmaci ad annodargli la lingua, ma l’indifferenza della gente. Ormai sono passati trent’anni da quando con una sentenza politica l’hanno dichiarato pazzo, da quando hanno ritirato i suoi libri da tutti gli scaffali della nazione, da quando il silenzio sul suo nome si è sedimentato come la terra tra il vuoto e il pieno di una nuova generazione di uomini. Ma questa, per Vera, è una storia antica e sconosciuta. Qualche volta nelle notti di pioggia, quando le luci si spengono, lo sente piangere nel buio della sua stanza. L’ultima volta ha spinto la porta senza bussare, si è seduta sul bordo del materasso e gli ha messo le braccia intorno al corpo. Ha sentito sul suo seno la pelle scorticata dalla vecchiaia e dalle ossa troppo sporgenti, il raspare del mento ruvido di barba, il fiato veloce e caldo. Dopo un po’ lui ha smesso di piangere, il respiro è tornato calmo, e le lacrime versate sulla sua pelle si sono asciugate. L’indomani Vera non ha saputo tenere il segreto. E la caposala ha riferito al direttore, il quale ha ordinato di aumentare le dosi nel trattamento a base di litio e clozapina. Vera da quel giorno ha promesso a se stessa che non avrebbe più tradito un segreto. Nell’ultima settimana si è limitata a rimboccargli le coperte e a versargli l’acqua nel bicchiere che tiene sul comodino. La mattina presto lo solleva dal letto – è leggero come un capretto appena nato – e lo fa sedere in carrozzina, pulisce il pavimento, strizza lo straccio nel secchio e apre le finestre per arieggiare la stanza. In questi anni non è venuto nessuno a fargli visita. Dicono che non abbia più un parente in vita e che gli amici di un tempo, come spesso accade, siano troppo presi dalle proprie circostanze. Vera fa fatica a immaginare come fosse da giovane, nel pieno delle forze e delle facoltà, non osa neppure figurarsi di che genere fossero le sue poesie. Lei non sa niente di poesia, da quel poco che ha imparato nella vita sa che non ci si può fidare di chi fa un mestiere così inutile. Eppure le piacerebbe leggere le sue poesie, anche se sa che di quest’uomo non esiste più un solo verso sulla faccia della terra. Per un attimo lo guarda masticarsi le gengive, sbarrare gli occhi e ruotarli da una parte all’altra della stanza in cerca dei propri fantasmi. Quanto resisterà ancora questo piccolo mucchio d’ossa? – si domanda. Poi gli accarezza una mano e lo bacia sulla fronte. La fronte dei vecchi odora di carta bagnata. «Andiamo, signor Pasolini» gli fa, mentre osserva dalla finestra il bel sole di aprile. «Anche oggi la accompagno a vedere il mondo».

 


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