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Mr. Ciak: Suburra, Teneramente folle, Padri e figlie, Short Skin, Love and Mercy

Creato il 11 novembre 2015 da Mik_94
Mr. Ciak: Suburra, Teneramente folle, Padri e figlie, Short Skin, Love and MercyL'ho visto, all'inizio, più per dovere che per voglia. La curiosità che nasce quando il film – italiano, per di più – è sulla bocca di tutti e lo recuperi per non essere da meno; per dire la tua quando, in giro, il chiacchiericcio collettivo dirà cose belle e brutte sull'ultimo film di quello Stefano Sollima che, per pigrizia, hai voluto scoprire soltanto qui; convinto che non ti sarebbe neanche piaciuto. Perché a me i film che dipingono l'Italia violenta, selvaggia, brutta non piacciono per posizione presa. Un po' perché sono per un cinema che è evasione; un po' perché, più che sputare nel piatto in cui mangi, è come prendere una vagonata di merda e gettarsela in volto. E non è cieco patriottismo, se a parlare è uno che non segue con foga neanche la nazionale e, qualche anno fa, aveva remato contro la vittoria del tronfio Sorrentino agli Oscar; semplicemente, sono contro un cliché che non diventa d'un tratto migliore se, a usarlo, siamo noi stessi. Per gli americani, siamo pizza e mafia; cambia forse qualcosa, nella visione dei duri hard boiled girati, di notte, nella nostra capitale? Come avremmo reagito, noi che ci surriscaldiamo se in un'innocua commedia americana compare l'accompagnamento del mandolino, l'italiano pizzaiolo e mariuolo, se un noir come Suburra con, in pillole amare, la crisi economica degli ultimi anni e gli scandali politici di sempre – fosse provenuto dall'estero, con l'indice puntato contro i nostri peccati? Ci saremmo ribellati, permalosi per natura, davanti a un ricco campionario di brutture e luoghi comuni a fantasia – dai segreti del Vaticano alle reminescenze delle feste ad Arcore, dalle stragi a mano armata a un potere che gronda sangue. Forse perché, a cantare le contraddizioni della nostra Italia, santa e escort, non sarebbe stato uno come Sollima: autorizzato a metterci il naso, a scavare, dopo Romanzo Criminale e Gomorra. A usare l'autorialità dei grandi e a mescolarla con il ritmo che avrebbe avuto La Piovra sotto l'egida di una Netflix che non commette errori. Sollima è incredibile – ha occhio, personalità, palato fine – e dirige una pellicola di alt(r)i livelli. Imperfetta, giacché qualche sottotrama si perde nella fiumana e qualche svolta appare prevedibile, ma visivamente accattivante e emotivamente esplosiva. Ci sono tre grandi interpreti – il parlamentare corrotto di Favino, il dandy sotto ricatto di Germano, il burattinaio Amendola che fa pensare al Gus di Breaking Bad – e tre giovani promesse salvate dall'anonimato del piccolo schermo – la disinibita Giulia Gorietti, la vendicativa Greta Scarano, il bello e glaciale Alessandro Borghi. Una Roma coatta, impraticabile, in cui l'acqua gioca con le luci e la pioggia – come l'invadente colonna sonora firmata dagli M83: meravigliosi – non si arresta un attimo: scenario da antico testamento, in vista del giudizio universale. Più della fitta rete di Bonini e De Cataldo, artefici di un romanzo che vede, provvede e, letteralmente, prevede, Suburra lascia però attoniti – nonostante aspettative ingigantite, ma ben riposte – perché, in cuor mio, non pensavo che la Grande Bruttezza potesse avere un aspetto così ammaliante: le tette perfette, e finte, della Gorietti; la coreografica mattanza a opera di Amendola con, in sottofondo, quella Wait così dolce in Colpa delle stelle; la secolare cupola del Pantheon. Suburra, potente, sinistro poiché premonitore, è uno di quei film che è una vergogna – ché siamo quello che siamo – e un orgoglio insieme – gli italiani sono ancora così provinciali e incapaci come il luogo comune vuole? - esportare altrove. Di quelli che si girano a ogni morte di Papa. O a ogni fragorosa caduta di governo. (8) Mr. Ciak: Suburra, Teneramente folle, Padri e figlie, Short Skin, Love and MercyCam e Maggie si sono conosciuti negli anni sessanta, quando, con la rivoluzione alle porte e una diffusa pazzia, i comportamenti sopra le righe di Cam erano presi per normalità. C'è stato un matrimonio, sono nate due bambine e mentre gli anni sessanta hanno lasciato spazio al decennio successivo - i colori più tenui, una maggiore perizia nel dare diagnosi - gli sbalzi d'umore di lui hanno trovato un nome: bipolarismo. Teneramente folle, che è tenero e folle per davvero, potrebbe essere una sorpresa per i più: arrivato in sala in sordina, banalizzato da un titolo italiano di scarsa fantasia, è una deliziosa commedia familiare, che segue allegramente tutti i canoni del cinema indie e sorprende, senza patetismi, per un equilibrio miracoloso e un grande protagonista. In realtà, io lo aspettavo da un po', sicuro di che pasta fosse fatto. Presentato al Sundance – e da quando il Sundance non fa colpo? - non è né un Kramer contro Kramer – logico pensarlo, parlandosi di affidamento, responsabilità e genitori agli antipodi – nè un'altra stupida commedia americana – ancora più facile supporlo, visto lo stucchevole titolo nostrano. Se c'è stato il dramma, e c'è stato, non ci viene mostrato: il bipolarismo di Cam è ormai stato diagnosticato e moglie e figlie hanno imparato a gestirlo. Non ci sono troppi strepiti, non si esagera passando da un estremo all'altro: perlopiù, si vive in disordine, ma felici. Se c'è la commedia, e c'è, presentissima, non è di quelle spensierate: la storia, infatti, vede una mamma allontanarsi, in cerca di migliori opportunità, e quel padre ingestibile restare a casa, per prendersi cura di due bimbe che, mature e un po' sboccate, non hanno granché bisogno di lui. Ambientato in una città in crisi, come le nostre, vede famiglie non convenzionali, come le nostre, tentare di restare a galla. Tutto il mondo è paese. I problemi sono quotidiani - come arrivare a fine mese, scuola pubblica o privata, chi lava i piatti dopo cena? - e se le mamme portano i pantaloni e i papà, al contrario, si occupano di orli e crepes, l'atmosfera sarà festosa, disordinata e senza regole, come quando le donne di casa sono via e i bravi padri, poi pessimi compagni di vita, ci viziano e se ne inventano sempre una. Come per farsi perdonare qualcosa, perché forse è vero che le donne ci nascono, mamme, ma che papà si diventa. Il genitore interpretato da Mark Ruffalo, straordinario, è un uragano di reazioni sconsiderate e dignità. Zoe Saldana, con una naturalezza che non pensavo, è invece un'adulta responsabile, in un ruolo che la vuole convincente, questa volta senza azioni frenetiche e pelle variopinta. Infinitely Polar Bear, anche a rischio di risultare poco memorabile, sceglie quindi una via semplice, all'insegna dell'onestà. Dolce, ma con il fumo di qualche sigaretta di troppo e parolacce che la censura e le mamme, si sa, non perdoneranno. Una chicca in cui, a volte, si rischia di ridere fino alle lacrime, per poi scordarsi se il leggero pianto sia frutto dell'ironia del tutto o di una segreta commozione, sopraggiunta zitta zitta in un epilogo in cui, forse, il volersi bene sconfiggerà lo stare male. (7)
Mr. Ciak: Suburra, Teneramente folle, Padri e figlie, Short Skin, Love and MercySarò uno dei pochi al mondo a non avere in antipatia Gabriele Muccino – anche dopo l'infelicità delle sue dichiarazioni contro Pasolini, comunque ingiustamente attaccate. Da quanto, autore di drammi onesti e urlati, sia diventato poi un regista di cui parlare male è un mistero che mi sfugge. Non gli si perdona, dopo un piacevole ritorno da Accorsi e Jovanotti, il pasticcio che tutti fingono di non ricordare: Quello che so sull'amore. Dopo tre anni, ritorna con un copione risicato e le solite stroncature, che la presenza di grandi professionisti a bordo non gli risparmia. O saranno proprio quelli, i grandi nomi, a suscitare livore? Il difetto maggiore del suo quarto film straniero è che non si mantiene sempre in equilibrio; in sella alla bici che papà Crowe trattiene, prima che la figlia impari a pedalare: come nel recente Southpaw – anche lì, infatti, il lutto, la rivincita e il terrore di perdere l'affidamento – c'è un ricco cast e troppo in ballo. Tra le altre cose, anche tanta melassa, da dosare come si può. Se Padri è figlie è toccante come dramma familiare – i siparietti tra il protagonista e la sua “patatina” sono di una tenerezza disarmante -, altrettanto efficace non è, invece, come commedia sentimentale – Katie, figlia ormai cresciuta, che salta da un letto all'altro, a costo di deludere il ragazzo perfetto. Poco necessaria, inoltre, la presenza di un cast che non voleva passare inosservato: attori Premio Oscar e anziane leggende fanno da cameo, se Russel Crowe – in forma come ai tempi di A Beautiful Mind – risulta ottimo e Amanda Seyfried, insieme a un Aaron Paul romantico e in ombra, una intensa controparte femminile, purtroppo penalizzata dal tremendo doppiaggio. Ho visto questa parata di stelle sullo stesso marciapiede e il regista che si sbracciava per far sì che non si pestassero i piedi a vicenda. Però Muccino è un bravo mestierante. Ed eccolo lì, con i lunghi piani sequenza, i personaggi che corrono a perdifiato e si scapigliano, a tentare di bilanciare il necessario – e a limare comprimari legnosi – con un'emozione che non manca nell'epilogo in cui ci viene restituito quel che avevamo dato; fiducia compresa. Padri e figlie è l'americanata di un connazionale all'estero. E' ridondante e melensa come le volte scorse, ma è una sorta di fiaba di cui aspetti, nella chiusa, il lieto fine e le lacrime. Con il naso all'insù – e quello è un tratto solo nostro, perché i newyorkesi camminano a testa bassa, poco affascinati dal patinato – e la vaga indecisione di chi, regista e bambino, non sa quale regalo, e quale grande attore, pescare per primo dalla pila. (6,5)
Mr. Ciak: Suburra, Teneramente folle, Padri e figlie, Short Skin, Love and MercyEdo, diciannovenne alle prese con l'estate delle grandi scelte, ha due genitori in crisi, un'adorabile e sfacciata sorella minore, un migliore amico con il chiodo fisso del sesso e una cotta storica per la bella vicina di casa. Propositi per le vacanze: decidere cosa fare del resto della vita e perdere la verginità. A frenarlo, un segreto: la “pelle corta” del titolo, infatti, si riferisce alla fimosi di cui Edo soffre. Senza entrare nel dettaglio, imbarazzante problema annidato laggiù che impedisce al protagonista di eiaculare senza patire acuti tormenti. Presentato prima a Venezia, poi a Berlino, Short Skin è un esordio che sorprende. Boccata d'aria fresca, in un cinema attualmente in forma ma polveroso, si rivela un raro esempio di teen comedy che, dai prodotti americani, prende per fortuna l'etichetta e basta. Poco malizioso, nonostante il tema, e per nulla pruriginoso, nonostante la frequente nudità dei corpi, ha uno sguardo malinconico, da pellicola indie, e un umorismo pieno di decoro. Lì dove poteva essere godereccio e ridicolo, Short Skin – capitanato da un protagonista impacciato e bruttino, ma bravissimo, che presta alle sue innamorate Murakami e si mostra come mamma l'ha fatto; gesto di estrema autoironia e coraggio, tra l'altro, se non sei Fassbender – sceglie la via della delicatezza, un impatto neorealista. Scorre così senza forzature o eccessi, ben recitato da un cast che non è amatoriale nemmeno un po', e risulta spontaneo, pulito, giovanile. Questa prima volta - di Chiarini come regista e di Matteo Creatini come attore - forse si scorderà con il tempo, ma lenzuola stropicciate, qualche sorriso intelligente nel mentre e un fare impacciato che fa tanta, troppa tenerezza testimoniano che è andata bene, per essere un timido approccio iniziale. La seconda volta, tolto l'impaccio di torno e il perché dei dolori del giovane Edo, ci si augura che il primo possa diventare un regista di cui sentire parlare spesso, un nuovo Virzì?, e l'altro un grande amatore. (7)
Mr. Ciak: Suburra, Teneramente folle, Padri e figlie, Short Skin, Love and MercyLo strano incontro tra Melinda, impiegata in un concessionario, e un cliente particolarissimo – uomo sulla cinquantina dal comportamento esagerato – porta alla luce i dissapori tra i membri di una band e i lati oscuri di un talento incompreso. Chi era l'anima timida e creativa dei Beach Boys? Cosa si nascondeva dietro la spensieratezza dei brani di quei piccoli Beatles d'America, orecchiabili motivetti che parlavano solo di estate e surf, e perché i gruppi di ogni dove prima o poi si sciolgono? Love & Mercy è un dramma che si snoda tra ieri e oggi: una storia di idee travolgenti e eccessi, in un colorato periodo di transizione, che l'amore e la pietà del titolo, in un'eccezione in cui fa piacere credere, salvano il protagonista – genio e sregolatezza – da una tragedia annunciata. Ma c'è qualcosa che non va. Se l'affresco del periodo d'oro interessa – anni di nuove droghe e nuove sonorità, con voci instistenti che iniziano già a ronzare nelle orecchie del tormentato protagonista e un entusiasmante processo creativo da mettere a punto -, non convince particolarmente la parentesi contemporanea da cui è osservata la vita, ormai a un bivio, di Brian. L'esordio di Bill Pohlad, altrove acclamato, ha un approccio troppo televisivo, in assenza di autorialità: indeciso tra il visionario e il realistico, tra il drammatico e il musical, coglie il rischio di essere un po' tutto e un po' niente. Un impressionante one man show – Paul Dano, sbalorditivo, e John Cusack, rinato, recitano come un'unica anima – in cui c'è scarso spazio per gli altri personaggi – la Banks è una principessa senza macchia; Giamatti è un antagonista più inverisimile del Waltz di Big Eyes – e la grandezza dei Brian Wilson, presenti e passati, riempie le lacune. Quando l'attore è grande – gli attori, in questo caso – e il film dimenticabile. Quando la musica leggera ha un suo peso specifico. (6)

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