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Municipalizzate: fare impresa con i soldi dei cittadini

Creato il 27 novembre 2014 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Nel corso degli anni comuni, province e regioni hanno creato una serie di società; inizialmente furono motivate con l’incapacità o il mancato interesse per un imprenditore nel fare investimenti strutturali per erogare servizi, poi la motivazione si spostò sull’incapacità del privato di assicurare il servizio a prezzi “accettabili”, ovvero a prezzi inferiori ai costi che nel contempo creano buchi di bilancio a carico della collettività.
Ma nel corso del tempo gli amministratori si sono sbizzarriti incrementando a dismisura il numero delle partecipate, coprendo ambiti estranei alla funzione pubblica e facendo impresa con i soldi dei cittadini, come ad esempio nella gestione di un prosciuttificio.
Nell’articolo-inchiesta si esamina la dimensione delle aziende partecipate: quasi 8.000, molte di queste con pochi dipendenti ma ricche di poltrone; un sottobosco inestricabile su cui il Commissario Cottarelli aveva puntato l’attenzione. Anche Renzi in un suo tweet aveva annunciato lo sfoltimento da 8.000 a 1.000, ma evidentemente ancora non è giunto il tempo per “cambiare verso”.

La Pubblica amministrazione italiana ha un’altissima considerazione di sé, al punto che esiste un Comune nel nostro paese che con i soldi del contribuente ritiene di poter mandare avanti perfino un prosciuttificio, contando di far meglio degli imprenditori privati. E’ soltanto uno dei tanti paradossi emersi in questi mesi grazie all’opera del Commissario alla Spending review, Carlo Cottarelli, che da poche settimane ha abbandonato il suo incarico, e in particolare alla sua analisi sulle cosiddette “municipalizzate”.

Prosciuttifici a parte, cosa s’intende nel dibattito pubblico per “partecipate locali” o “aziende municipalizzate“? Nella categoria rientrano appunto le società che hanno come azionista – maggioritario o meno – le amministrazioni locali. Qualche esempio: Atac Spa, società del trasporto pubblico locale a Roma, è al 100% di proprietà del Comune di Roma; Atm Spa, che gestisce i trasporti locali di Milano, è al 100% di proprietà del Comune di Milano. Passi per il momento il trasporto pubblico locale, con tutte le sue inefficienze che i cittadini conoscono bene (sulle quali torneremo in futuro); ma certamente pochissimi contribuenti sono a conoscenza di altri ambiti in cui gli Enti locali giocano a fare gli imprenditori. E non è soltanto il caso di quel singolo prosciuttificio “municipalizzato” scoperto da Cottarelli. All’inizio di quest’anno, per esempio, il Comune di Roma, prima di ricevere aiuti aggiuntivi dal Governo centrale per la sua situazione di quasi-dissesto finanziario che si trascina da anni, ha dovuto approvare una delibera sulla propria società controllata “Farmacap”. Come forse avrete intuito dal nome, il Comune di Roma opera – con i soldi dei contribuenti – anche nel settore delle farmacie! La giunta comunale ha dovuto perciò sanare i bilanci degli anni 2010-2012 della Farmacap e ripianare il suo debito di 15 milioni di euro. Tutto ciò perché in giro per la capitale ci sono ancora 43 farmacie di proprietà pubblica, stranamente in perdita anche in ragione di conti salatissimi degli affitti (!) e delle ristrutturazioni dei locali che le ospitano. Ecco quanto ci costa il Comune che vuole vendere l’aspirina.

Quante sono le partecipate locali in Italia?

Secondo i dati elaborati dal Cerved, “il 97% degli 8.058 Comuni italiani detiene quote del capitale sociale di una o più imprese: in totale si contano 118 mila partecipazioni dirette o indirette (fino al terzo livello) in 6.469 società, nell’ambito delle quali sono occupati 285 mila dipendenti”. Se poi invece teniamo conto delle partecipate di tutti gli Enti locali (quindi Regioni e Province inclusi), ecco che, secondo il Commissario Cottarelli, “la banca dati del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia (…) censiva 7.726 partecipate locali al 31 dicembre 2012″. Con una postilla letteralmente disarmante, oltre che allarmante: Non si conosce il numero esatto delle partecipate perché non tutte le amministrazioni locali forniscono le informazioni richieste e perché le banche dati esistenti si fermano ad un certo livello di partecipazione (diretta, indiretta di primo livello, eccetera)”

Numero di dipendenti e costi

Se le informazioni sul numero delle partecipate sono lacunose, figurarsi quelle sui costi complessivi delle stesse. Per certo si può dire che – nonostante la situazione finanziaria spesso negativa – esse hanno un numero considerevole di dipendenti, confermando la tesi che sono state utilizzate dai politici per moltiplicare in maniera clientelare incarichi apicali e assunzioni, perlopiù eludendo vincoli pubblicistici in termini di finanza pubblica e di procedure per l’assunzione. Secondo il Cerved, il complesso delle partecipate dei soli Comuni italiani impiega 285 mila dipendenti (54 in media per ogni partecipata); se invece consideriamo soltanto le 3.100 società partecipate in cui i Comuni hanno quote di controllo, i dipendenti scendono a 200 mila. Parliamo sempre di stime.

Proviamo per un attimo ad andare oltre i dati aggregati. Secondo il rapporto di Cottarelli per il Governo Renzi, addirittura, “un numero molto elevato di partecipate non ha dipendenti o ne ha molto pochi (almeno 3.000 con meno di 6 dipendenti, probabilmente di più tenendo conto che per molte non si hanno informazioni in proposito”. Inoltre in circa metà delle partecipate dei comuni censite dal Cerved, il numero dei dipendenti è inferiore al numero delle persone che siedono nei consigli di amministrazione. Almeno 1.300, anche qui probabilmente una sottostima, hanno un fatturato inferiore a 100.000 euro. Alla luce di questa analisi, è lo stesso Commissario alla Spending review a scrivere: “Si tratta quindi di piccole società con il sospetto che molte siano state create principalmente per dare posizioni di favore a qualche amministratore o dipendente”.

Secondo i calcoli della Confindustria, l’onere complessivo sostenuto da tutte le Pubbliche amministrazioni (inclusa quella centrale dunque) per il mantenimento degli organismi partecipati è pari complessivamente a 22,7 miliardi di euro l’anno, pari all’1,4% del Pil. Per dare un termine di paragone: questa cifra è praticamente identica a quella che lo Stato incassò nel 2013 grazie all’Imu su tutte le case di tutti gli italiani. Se anche ci si limitasse a sopprimere i trasferimenti verso i soli organismi che non svolgono servizi pubblici (ma che invece lavorano soltanto per l’ente partecipante, Comune o Regione che sia), secondo gli industriali si potrebbero risparmiare 12,8 miliardi. Secondo i progetti del Commissario alla Spending review, Carlo Cottarelli, riducendo da 8.000 a 1.000 le municipalizzate, nel giro di 3-4 anni si possono risparmiare 2-3 miliardi di euro, oltre ad entrate una tantum difficilmente calcolabili ma che sarebbero generate dalla vendita delle stesse società.

Cosa sta facendo il Governo Renzi sulle partecipate?

Sta davvero riducendole, così da poter risparmiare risorse pubbliche e quindi abbassare le tasse? Sta davvero lasciando spazio alla libera imprenditoria nei settori in cui questa può fare meglio dei burocrati? Come spesso accaduto nei primi mesi di questo Governo, gli annunci riformatori non sono mancati. Addirittura, lo scorso 18 aprile, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, fece il seguente Tweet: “#municipalizzate: sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000’”. Per ora però ai Tweet non sono seguiti i fatti. Nella Legge di Stabilità in corso d’approvazione parlamentare non sembrano esserci misure radicali per “sfoltire” le municipalizzate. Anzi, il Corriere della Sera, questa settimana, ha svelato alcune recentissime nomine di ex politici trombati in aziende partecipate del Tesoro o degli Enti locali. Eppure, proprio su questo fronte, servirebbe “cambiare verso”.

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