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Musica indie italiana: le mie recensioni in pillole pubblicate sul sito di Troublezine (pt.1)

Creato il 14 ottobre 2015 da Giannig77

Ho deciso di raccogliere in questo post le mie varie breve recensioni pubblicate nella rubrica “In pillole” che potete leggere ogni mese sul sito di Troublezine.it dove da tempo collaboro.

Sono tutti dischi di recente uscita, quelli che trovate qui sono stati pubblicati da maggio ad oggi. Gli ultimi miei contributi riguardano i dischi di Emmanuelle Sigal, Paolo Zanardi e i Laurex Pallas.

Buona lettura

Vincenzo Fasano “Fantastico” (Eclectic Circus)
Non sono certo la passionalità e la grinta a mancare nel cantautore mantovano (ma di origini siciliane) Vincenzo Fasano, giunto al secondo lavoro a quattro anni di distanza da “Il Sangue” che lo aveva fatto emergere sino ad approdare tra i 15 finalisti del “Cornetto Summer Festival” due anni dopo. Però questo album dall’evocativo titolo “Fantastico”, seppur prodotto e arrangiato bene, sembra difettare in ispirazione, e questa è un’aggravante non da poco, se si considera un mercato dei dischi sempre più imbalsamato ma allo stesso tempo ingolfato di nuove produzione, piccole, grandi o self che siano. Fasano nel singolo di lancio La mia vita al contrario o nell’introduttiva Il presidente dell’Universo mostra buone intuizioni sia a livello testuale che interpretativo ma poi i suoni si perdono in cose che sanno di già sentito. La titletrack appare per lo meno abbastanza epica e ad ampio respiro ma altre canzoni risultano appesantite da un cantato sin troppo “tirato” (penso a Titoli di coda e soprattutto A Pugni chiusi) mentre convincono di più quei brani in cui i suoni si fanno più soffusi, da cameretta, come nella malinconica Barcellona, in cui il concetto di sogno si infrange nel duro confronto con la realtà, stesso tema portante di Armami.

Meg “Imperfezioni” (autoprodotto)
Ci sono voluti ben 7 anni per risentire Meg, la storica seconda voce dei rinati 99Posse (rientrati in pista però senza i suoi soavi controcanti). Si è affidata come tanti illustri colleghi al crowdfunding e il risultato è “Imperfezioni”, che sembra quasi mettere le mani avanti sin da titolo. No, non appare perfetto questo disco della “eterna giovane” napoletana, intriso di quell’elettronica che in fondo l’aveva già contraddistinta nelle sue precedenti pubblicazioni da solista. Certo, i suoni sono più moderni, curati da lei stessa e dal fido Mario Conte. Decisivo il lavoro di drumsprogramming in alcune tracce dei deejay Digi G’Alessio e Godblesscomputers che hanno contribuito a dare un respiro quanto più internazionale al disco. Tuttavia, dopo aver ascoltato le tracce che lo compongono, non viene da gridare al miracolo. Anche se bisogna ammettere che Meg abbia cercato diverse vesti sonore per le proprie creazioni, alternando a suoni eterei (come nella canzone che intitola la raccolta) altri momenti più vivaci come in Skaters (in odor di drum ‘n bass) o in Parentesi (che suona più new age). Spicca ovviamente la sua voce, molto evocativa e seducente, adatta ad accompagnare melodie che in primis intendono rilassare e mettere a proprio agio l’ascoltatore. In tempi così frenetici e spesso brutali non è impresa da poco.

Modena City Ramblers “Tracce clandestine” (MCRecords)
L’ennesimo album dei Modena City Ramblers, il primo gruppo folk italiano, senza timor di smentita, è in realtà un tentativo (riuscito) di ridare la giusta dimensione e dignità a brani spesso già interpretati con successo in alcuni dei numerosi live che da sempre contraddistinguono la loro ventennale carriera.
Per i fans però sarà l’occasione di veder immortalati su disco alcuni dei loro momenti più entusiasmanti ma che per un motivo o per l’altro non ebbero modo di venire incisi (penso a Fischia il vento o Canzone per un amico fragile). Ci sono soprattutto azzeccate cover, omaggi a gruppi che fanno parte della loro storia e formazione, come If I shouldfall from grace of God dei Pogues, band irlandese che seppe mettere tutti d’accordo agli albori dei Mcr, fungendo da catalizzatore per unire tante anime diverse o la Clandestino di Manu Chao. Particolarmente emozionanti sono il duetto con Eugenio Finardi in Saluteremo il signor Padrone e la cover della splendida The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen, qui suonata alla loro maniera, come una lenta e dolce ballata folk.
Un disco non imprescindibile per la carriera dei Nostri, ma che mette in mostra musicisti che a distanza di tanti anni ancora suonano col cuore, mettendoci impegno e amore per la musica.

Davide Solfrini  “Luna Park” (New Model Label)
E’ certamente un Davide Solfrini più maturo e forse meno scanzonato rispetto al suo interessante esordio “Muda”, uscito sempre per New Model Label, etichetta ferrarese, quello che emerge nelle canzoni di “Luna Park”. A differenza di allora, le atmosfere sembrano più varie e meno legate a certo pop rock di matrice americana, passionaccia del Nostro. Prova ne è proprio la titletrack, debitrice di una certa new wave dark alla Diaframma (peccato per la voce troppo flebile, che poco ha a che spartire con quella di Sassolini), piuttosto insolita a livello di songwriting. Altra traccia che si distingue per tematiche forti è senz’altro Bruno, che ci riporta agli anni ’80 con il triste epilogo di un tossicodipendente di provincia. Anche l’apripista Cenere, dai connotati autobiografici, ha un taglio nostalgico e ricorda un po’ il miglior Bennato. In Lavanderia si sentono echi dei R.E.M., e si candida a miglior brano della raccolta al pari della frizzante Ballata, un po’ alla Dente. Ma al di là di questi paragoni, che servono forse a inquadrarlo per chi non lo conoscesse, è indubbio invece che Solfrini abbia molte carte da giocare nell’ambito dell’indie pop italiano.

Domenico Imperato “Postura Libera” (New Model Label)
Decisamente singolare la proposta del pescarese giramondo Domenico Imperato, all’insegna di una curiosa e originale commistione di musica strettamente cantautorale, debitrice dei grandi classici (non a caso è il vincitore del Premio De Andrè 2014) e quella brasiliana, dove ha a lungo soggiornato, venendo a stretto contatto con la fiorente scena locale. Proprio a San Paolo ha registrato le 10 tracce del suo debutto ufficiale, per un viaggio che accompagna l’ascoltatore cullandolo dolcemente. Apre le danze in realtà quella che è forse la canzone meno ritmata di tutte, la delicata Gira, mentre già dalla seconda Frutta Tropicale si entra in mood giusto con l’America Latina, con il Brasile citato esplicitamente. Un po’ di bossanova in chiave moderna la si può riscontrare in Riposa, mentre con la titletrack si torna ad essere più intimisti ma allo stesso tempo più incisivi a livello di testo. L’autore si trova decisamente a suo agio anche con la lingua portoghese, come ben evidenziato da Lua Nova, il mio brano preferito della raccolta. A tratti, in alcune ballad, sembrano riecheggiare i toni del miglior Niccolò Fabi, e sinceramente non pare troppo audace pronosticare un futuro simile a Imperato.

Tamuna “Woodrock” (New Model Label)
Disco d’esordio con i fiocchi per i palermitani Tamuna, attivi da tre anni e da subito saliti alla ribalta in contesti etno-folk-rock, grazie al primo premio conquistato al Contest Edison Change the music. Ci sono voluti altri due anni e mezzo per far confluire le numerose influenze e istanze del quartetto in un album compiuto, quale è “Woodrock”, che pur essendo quasi prettamente acustico, è in grado comunque di smuovere, di far ballare e pensare, finanche a travolgere con il suo messaggio globale, positivo. Graffiante e diretta la voce del leader Marco Raccuglia, come si evince in Gerlando, in cui si omaggiano persino i Beatles di Hey Jude. Spettacolari in alcune tracce le percussioni, così come i fiati, a impreziosire un sound altrimenti troppo impersonale. Così facendo invece l’alchimia tra tradizioni della loro Terra (la Sicilia fa spesso capolino nei loro testi) e modernità è in qualche modo garantita. Pezzo più rappresentativo, a mio avviso, più che il singolo di lancio Ciuscia, interpretato in dialetto palermitano, e comunque interessante nel suo genere ibrido pop/reggae, è Penso, in odor di pizzica.

La Banda Di Piero “Rocambolesco” (autoprodotto in collaborazione con la Coop Controvento di Venezia)
La Banda di Piero (alias il cantante Andrea Filippi) è un ensemble di Portogruaro giunto finalmente dopo 6 anni di attività all’esordio sulla lunga distanza con “Rocambolesco”. Il sestetto, nato dall’alchimia creativa di Filippi e del talentuoso chitarrista Gabriele Bertolin, propone uno scatenato miscuglio di generi riconducibili però a una patchanka sonora ben costruita e modellata. Prevalgono i ritmi serrati, caratterizzati dal suono imperioso del trombone di Silvano MoniBidin, come in Pigro o in Bice, che potrebbero stare benissimo nel repertorio della Bandabardò, influenza piuttosto palese dei Nostri. Specie le chitarre di Bertolin e di Paolo Bornacin ricordano lo stile elettrico e frizzante di Finaz. Un lavoro lineare, incentrato su una forte passione e una chiara dichiarazione d’intenti: quello di un artigianato musicale che però dalla sua può mettere in campo nella giusta misura della discreta tecnica e buon gusto in materia folk.

Federico Poggipollini “Nero” (ArtevoxMusica / BelieveDigital)
Ingrato destino quello che spetta a molti “guitarhero” una volta che provano a cimentarsi in progetti solisti. Solo rimanendo in territori italiani, e andando a ripescare vecchie e nuove esperienze di gente come i bravissimi Maurizio Solieri e Luigi Schiavone, si nota chiaramente come spesso la critica sia poco generosa con loro, anche qualora ci fossero buone intuizioni. Figuriamoci quindi quando l’opera in questione è pure piuttosto scadente sotto il profilo della qualità pura, come nel caso del braccio destro del Liga, Federico Poggipollini, noto come Capitan Fede dai fans, giunto stoicamente al quarto album in solitaria. Ma se ai tempi dell’acerbo esordio, era lodevole da parte sua il tentativo di affrancarsi da un’ombra così ingombrante, dimostrando di poter stare in piedi da solo, anche grazie a carine ballate pop rock, con questo “Nero” francamente ci pare di intuire che la carta del rocker non gli si addica più di tanto, mancando di ispirazione musicale, laddove i suoni sono a tratti pacchiani e ridondanti. Per non parlare dei testi, davvero banali, anche quando l’intuizione di partenza sarebbe buona (vedi i casi di Religione o Fantasma di periferia, inficiato però da un testo alla Steve Roger’s Band, con buona pace dell’anima del grande Massimo Riva), quando non imbarazzanti, vedi l’esempio de La più bella del bordello o Un giorno come un altro. Meglio quando va a proporre delle melodie delicate, come succede in Solamente un’ora, anche se pecca clamorosamente in intensità interpretativa, così da far sembrare lontanissimi i tempi della sua fortunata hit Bologna e piove.

Radiodervish “Cafè Jerusalem” (Autoproduzione)
Si sono affidati al crowdfunding i Radiodervish per poter realizzare in piena autonomia il nuovo progetto “Cafè Jerusalem”. La raccolta fondi ha raggiunto molto agevolmente il proprio obiettivo, anche perché il gruppo pugliese/palestinese gode da ormai 20 anni di una nutrita cerchia di affezionati, e di un riscontro notevole in tutta Europa, tanto che non stona definirli uno degli orgogli maggiori che la nostra Penisola può vantare non solo in campo musicale, ma proprio in senso artistico più ampio. Infatti anche in questo intenso, suggestivo, profondo disco, che ruota tutto attorno alla storia della città Santa di Gerusalemme, spesso martoriata nel corso della sua millenaria storia, si possono trovare tutti gli aspetti basilari della loro poetica. Splendida come sempre la voce di Nabil Salameh, a intessere scenari mitici, permeando le atmosfere di calore e trasportando l’ascoltatore in un lungo viaggio in Oriente. Commuovono brani come Nura, toccante, da pelle d’oca, e Promenade. Emana un forte senso di pace e una dolcezza sconfinata Love in Jerusalem, mentre la più ritmata Hakawati e soprattutto l’ondeggiante Cardamonrappresentano forse il meglio che l’attuale panorama della world music potesse chiedere, così come lo strumentaleOut of Time che chiude egregiamente il disco. Lo ribadiamo, gruppi come i Radiodervish rappresentano un vanto per l’Italia all’estero.


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