- Anno: 2011
- Durata: 80'
- Genere: Horror
- Nazionalita: Italia
- Regia: Ricky Caruso
Giocoforza verrebbe da dire che questo Naftalina, esordio registico del catanese Ricky Caruso, appartenga a quella serie di pellicole sotterranee, molto underground, oltraggiosamente sporche, logore, che vivono di puro orrore, pur non essendo dichiaratamente dell’orrore, bensì sull’orrore, quello umano, esistenziale.
Un esordio che trasuda passione, espressività, ingegno e senso del macabro, un’opera prima assolutamente distaccata dall’attuale cinema italiano, verso il quale non vi è alcun tipo di contatto, un film che si crogiola di pura decadenza e squallore, una storia onesta, che non tenta di sembrare quello che non è, vale a dire un quadro grottesco e surreale su un microcosmo familiare emarginato e malato. La sua potenza è tutta nella sottrazione, perché effettivamente il film in sé, non ha vere e proprie immagini estremamente dure o forti, al contrario sono gli atteggiamenti, i movimenti, gli sguardi, i sentimenti alterati, la misera condizione di vita, assolutamente al di là del bene del male, a far emergere nello spettatore il vero senso di disagio e rifiuto che alberga per tutta la durata della pellicola.
In Naftalina il microcosmo di cui sopra viene rappresentato da una famiglia di vere anime perse, abbandonate alla miseria quotidiana, capeggiate da un tiranna e autoritaria madre padrona, dalle inflessioni linguistiche alemanne, dai suoi tre figli, tutti e tre enormemente traumatizzati, castrati dalla durezza materna, uno infantile e servile, prigioniero di un’infanzia devastata e mai avuta, un secondo, apparentemente normale, in verità impotente e in grado di soddisfare il piacere sessuale solo attraverso le sue armi da taglio, con le quali squarta le sue vittime per poi fotografarle, e un’ultima, una femmina, segregata in cantina fra cumuli di sporcizia e totalmente priva del lume della ragione. C’è anche una adornante figura paterna, dal volto mostruoso, catatonica presenza/assenza in un contesto dominato dall’ira matriarcale.
Il grottesco, surreale simbolismo di quest’opera e dei suoi personaggi, come la madre, espressamente, sopra le righe, ai figli, traumatizzati e addirittura costretti ad ingurgitare una sorta di sbobba verdognola molto simile al vomito verde della Regan in The Exorcist (1973), è tutto così estremizzato che in più di un’occasione sfocia, smargiasso, nel circense; è infatti palese come la mamma, maniaca del controllo, risulti essere la domatrice ostile di un organismo che ha in pugno, quasi un’ape regina maligna che gestisce nel proprio nido altri insetti, non a caso i personaggi del film vengono proprio presentati, o per meglio dire preceduti, dalla dicitura di uno specifico insetto, metafora dichiarata della loro (dis)umana condizione.
E se poi, come spesso succede, dovessimo trovare un punto di rifermento a cui accostare Naftalina, il primo che riecheggerebbe fiero, ma anche facile, nelle menti cinefile sarebbe Eraserhead (1977), illustre esordio alla regia di David Lynch, al quale, senza fare paragoni, il film di Caruso si gemella per il misero disagio esistenziale, quotidiano, verso una realtà deformata da atteggiamenti tanto anormali quanto rituali. Guardando Naftalina, si ha come la sensazione che quella anormalità grossolana, divenga, o sia già da tempo, all’interno del contesto filmico, una condizione accettata, malamente assimilata, tanto che i tre figli non sembrano concepire altro modo di vivere e tutto ciò è possibile anche grazie ad una sapiente messa in scena, spoglia di empatia, asettica, coadiuvata da una fotografia pertinente, a cura di Ence Fedele, altrettanto spoglia di fronzoli, funerea, plumbea quanto il vissuto dei protagonisti. Il film diviene quindi un decanto della paranoia e delle manie feticiste, una storia nera, chiusa, che sposa, coraggiosamente, i più biechi lati della natura umana per costruire un discorso sulla famiglia quale nucleo originario di ogni tipo di orrore; certo, un discorso non di primissimo pelo e un po’ abbozzato, con un finale troppo frettoloso e privo del giusto mordente, ma a cui riserviamo le attenuanti del caso, budget irrisorio e location limitate, senza pretendere molto di più, anzi.
Se finora si è parlato del film in sé, del suo simbolismo surreale, volutamente sopra le righe anziché del suo disfunzionale gruppo di famiglia in un interno, risulta, a questo punto, impossibile non soffermarsi anche sulla regia di Caruso, rigida, per niente egocentrica, la quale si sofferma con pazienza sui personaggi, sulle loro manie, sul loro stato ed è completamente al servizio di questi, della storia, evitando movimenti di machina a vanvera e pseudo inquadrature ad effetto per mostrare una bravura tecnica che magari esiste, ma evita di imporsi. Ed è altrettanto difficile non parlare delle prove attoriali, dalla perfida madre interpretata dalla navigata Monika Zanchi (Spell (Dolce Mattatoio) e Autostop Rosso Sangue), che gigioneggia a spada tratta ed è prima donna in tutti i sensi, alla prova sfiancante di Emiliano Cinquerrui nel ruolo del figlio più infantile e distrutto, totalmente prostrato al matriarcato.
Naftalina di Ricky Caruso non è dunque un film che si guarda con facilità, necessita di una giusta predisposizione, è un film che sfida, lacera, fa male, un film asciugato da orpelli di ogni sorta, privo di spieghine e spiegoni, tutto accade perché è sempre stato così, e mira volutamente a forgiare uno stile personale, libero, ed è proprio tale libertà a piacerci tanto, sfrontata, consapevole, che ci induce a credere di vedere molto più di quanto in realtà ci venga mostrato. Un esordio spessissimo, robusto, curato, un eco del cinema di genere, ma purtroppo è anche uno di quegli esordi italiani destinati a dover scalare una ripida salita, oltre la quale non è affatto detto ci siano vasti palcoscenici. Ad ogni modo, c’è ancora vita nell’indipendente sottobosco di genere.
Manuele Bisturi Berardi