Magazine Diario personale

Nascere anziani

Da Anacronista
Post ispirato da una divertente e lunga chiacchierata con due anziani. Anch'esso è fazioso, come vuole la non linea non editoriale del blog. Trascuro volutamente ogni discorso politico - questione generazionale ecc - sul tema, che ho molto a cuore e che è materia per ben altri discorsi. Non voglio banalizzare un'età difficile: non lo faccio, infatti, semplicemente perché i concetti giovane/anziano non sono usati in senso anagrafico.Ho più feeling con gli over 50 che con i coetanei; ebbene questo non significa altro che essereanziani dentro. Cioè proprio inside. Realizzarlo non è il massimo, ma l'idea comincia ad assumere una sua legittimità. Quando girano quei link demenziali sul fatto di avere trent'anni (non ancora grazie), con le cose presunte terribili che cambiano, io non posso trattenere un sorrisino sarcastico: “non andrai più in discoteca”, “vorrai solo scarpe comode”, “saprai moderare le sbronze”, eccetera. Dilettanti: io ho iniziato a venti. (Ma non escludo di esserci nata, così). In fondo, i ggiovani - quale anch'io tecnicamente sarei - non li sopporto. Hanno tutta quell'aria di esaurire il mondo, un certo modo di fare totalmente sgraziato, da persone risolte, tutta una fastidiosa mancanza di sentimenti (leggi: goffa simulazione della), con l'erronea, la quanto mai erronea convinzione che non provare sentimenti sia da persone fighe. Quella puzza di Erasmus che promanano già a sei metri di distanza, poi. Ma basta.E' da quando avevo quindici anni che provo ad essere giovane. Andavo addirittura in discoteca. Ho di recente ritrovato queste righe, scritte circa dieci anni fa, cioè agli albori del mio decorso senile, dopo una serata deludente. 
Non ci riesco più ad andare al bar e a vedere gente che vomita fuori. O a parlare senza riuscire a sentire quello che dice per via del bordello. Queste conversazioni che nascono per morire, questi urletti coi quali sostenere moralmente l'umore della serata, mi distraggono continuamente dal perché io sono qui con voi. Sarebbe più coerente, a questo punto, se ognuno si chiudesse in una camera insonorizzata e saltellasse con un drink in mano, senza l'illusione di stare in mezzo agli altri.
Qui avevo finalmente smesso di far finta di divertirmi, cosa che facevo quando ancora credevo che il divertimento fosse un concetto normativo (per divertirti devi fare questo e quest'altro, ecc); per carità, peggio che andare a lavorare. Mi sforzavo di interessarmi, con la stessa solerzia e livello di approfondimento richiesto, a questioni quali le scarpe e l'abbigliamento. Per carità: l'argomento può essere addirittura interessante, sì, ma non oltre i cinque minuti. A mantenermi sempre sulla stessa soglia di superficialità quotidiana richiesta per le conversazioni di gruppo. Quei gridolini entusiasti che in quanto femmina gregaria oltre che giovane ci si aspettava intrinsecamente da me, poi, mi sono sempre usciti male. Mai avuta l’aria di skassarmi giusta richiesta. Con me quella vecchia carcassa di Tacito sfonda una porta aperta, quando dice, sii una folla per te stesso. Il problema è che ero circondata da un rumore continuo travestito da persone. (Non che ora sia diverso, solo che adesso ho smesso di convincermi che gli altri siano fighi per il sol fatto di non essere me, nda). Ebbene, se c'è un aspetto del crescere che non ho in odio è proprio questo, questo renderti conto che dell'essere ggiovane - in quel senso normativo là – a un certo punto non te ne frega proprio più niente. Minchia che liberazione. E finisci per provare un po’ di pena per quelli che ancora si dimenano nella performance giovanilista. Via, è chiaro quel che intendo. Più che con l'essere anagraficamente giovani ce l'ho con il giovanilismo, con questa corrente paraculturale che fa del ggiovane un pacchetto morale dotato di caratteristiche asfissianti. Presenti quei locali dove ci sono i tavoli, le sedie, insomma tutto sembra predisposto per far incontrare le persone, e poi mettono la musica a palla, in modo da guardarsi scrupolosamente dall’eventualità che ciò avvenga? E devi pure pagare? Ecco, mi sembra la metafora giusta.Gli anziani, o per meglio dire i molto adulti, sono loro i veri giovani, talvolta. (Tranquilli, nessun essenzialismo: escludo consapevolmente gli ottusi, i pallosi, i gerontocrati, i paternalisti, i crocerossini, i professoroni, i redentori, le pseudoautorità, ecc. Purtroppo, so bene che non basta essere adulti per essere persone decenti, spero di non doverlo argomentare tanto è scontato. Qui mi riferisco a, come dire, una specie protetta all’interno di un macrogenere, non anagrafico ma per così dire esistenziale). Hanno negli occhi un vero entusiasmo, cioè un vero interesse per quello che gli sta intorno, senza quei paraocchi, cioè senza quell’ottuso schemino che hanno taluni ggiovani, che se non rientri nelle celle previste manco ti vedono; sanno valorizzare le cose, ascoltare chi hanno davanti, vedere chi hanno davanti. Non c’è traccia di quel modo sgraziato di essere autocentrati, che accomuna molti, inconsapevoli del fatto che il narcisismo, che ci accomuna tutti, a un certo punto diventa noioso, quando ti impedisce di vedere quello che c’è fuori e di scoprire che quello che  non ti riguarda direttamente può addirittura essere interessante. Se hai una particolarità la riconoscono subito, notano i dettagli e ne gioiscono: con loro puoi davvero comunicare. Ti fanno domande, e rispondono alle tue, non hanno bisogno di essere o sembrare indifferenti. C’è davvero la sensazione di relazionarsi, per quanto mi riguarda sempre più rara. Giuro, al giorno d’oggi pare impossibile ma giuro! Soprattutto, hanno una straordinaria tolleranza, perdonano i difetti come nessun ggiovane è in grado di fare. Da ggiovani non si perdona perché l’ideale di perfezione è ipercarico. Si è troppo esigenti proprio perché si è poco vissuto (in senso qualitativo, non quantitativo!) e non si è ancora sperimentato che la perfezione non vale la candela. Da adulti invece, loro hanno capito che non solo la perfezione non esiste, ma che sotto sotto non era neanche chissacché, 'sta perfezione: che addirittura il godimento comincia proprio allora, quando se n’è decretata l’inesistenza. E’ tutta roba che si sono sudati col tempo, che non è che puoi avere così, gratis. Lo sanno, che gli esseri umani sono intrinsecamente limitati, che sono vulnerabili e che perciò tanto vale godersela consapevoli dei propri limiti, piuttosto che fingere in modo goffamente arrogante di non averne. Con un anziano puoi parlare moltissimo e ridere di gusto. Non strabuzza gli occhi, tra il disgustato e l’indifferente, se non capisce qualcosa di te: gli occhi, allora, si fanno più accesi, si illuminano di curiosità – fammi capire meglio, com’è la questione? Non ha bisogno di dimostrarti nulla, di ostentare indifferenza e autosufficienza – quell’ottuso auto-bastarsi, che ha qualcosa di francamente urtante e volgare –, o un’aria fintamente indaffarata: ha già sperimentato che questa è una stronzata, che si ha bisogno di esibire fino a un certo momento. Sa benissimo che il bello viene dopo, quando cioè ammetti la dipendenza, e cominci a concepire gli altri come parte costitutiva e imperfetta del tuo percorso imperfetto. Senza prendersi tanto sul serio. Oh, fate un po’ come vi pare. Ma io preferisco gli anziani, senza nulla togliere. In questo mondo barbaro, loro sanno ancora innamorarsi! Sul tema consiglio vivamente di leggere le parole del grandissimo Roland Barthes, vero filosofo, su cui prima o poi spero di riuscire a scrivere qualcosa.

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