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Nazismo. I tedeschi ne pagano ancora le conseguenze.

Creato il 10 maggio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Vocaboli cambiati, denazificazione, apologia di nazismo: storia della Germania e della modifica alla vita dei cittadini dopo il regime nazista.

Dopo la caduta del regime nazista, la Germania non ha lasciato nulla al caso. Resasi conto della distruzione e delle sofferenza che il Terzo Reich aveva portato in Europa e oltre, il governo tedesco ha preso provvedimenti tali da far impallidire la nostra legge Scelba e far tremare le ginocchia ai liberali più incalliti. Mentre nel paese della libertà per eccellenza, gli USA, chiunque può appendere al balcone una bandiera nazista, fascista o comunista rifacendosi alla libertà costituzionale di pensiero e di espressione, in Germania la questione è molto diversa.

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Edizione inglese del Mein Kampf. Photo credit: Gwydion M. Williams / Foter / CC BY

Nel paese tedesco, infatti, l’apologia di nazismo è severamente punita. Un “ricomincio da zero” totale e completo, seppur con alcune lentezze, che comincia con modifiche radicali a ciò che di più larga diffusione vi sia: la parola. Un vocabolario resettato e reimpastato è la prima mossa per andare oltre: questo hanno pensato i governi tedeschi del dopoguerra. Così, la libertà di espressione del popolo tedesco si è irrimediabilmente ridotta. A ragione per alcuni, a torto, per altri. Via tutte le bandiere, i simboli dell’immaginario nazista. Vietato utilizzare la parola Führer per indicare un conducente di mezzi pubblici, meglio Leiter. Veterland, “patria”, non si può più trovare sui libri di testo scolastici: al suo posto, Heimat, “luogo natio”. Non solo: i gerarchi nazisti sono stati sepolti in luoghi segreti, lontani dagli sguardi di fanatici e giornalisti a caccia di succedanei da fondopagina.

Anche nella scuola si è avvertito il polso del governo. Il Mein Kampf, il libro redatto da Adolf Hitler stesso e suo manifesto politico, è stato riadattato. I diritti sono stati acquistati dalla Baviera, Land federale che ha acquisito anche altre eredità del Reich tedesco durante il periodo nazista. La Germania non scherza: non sono accettabili copie del Mein Kampf senza note pedagogiche. I governatori della Baviera stessi hanno annunciato che nel 2015 uscirà una nuova edizione, con commenti e note di un gruppo di storici, per mettere in luce “le enormi assurdità del testo che hanno provocato conseguenze fatali“.
La severità si vede anche nelle piccole cose. Nel 2010, un uomo di Berlino è stato denunciato dai vicini e poi arrestato dalla polizia tedesca perché aveva chiamato il proprio pastore tedesco Adolf e gli aveva insegnato ad alzare la zampa quando gli veniva detto “Fai il saluto!”. A successivi accertamenti, l’uomo è risultato essere un fanatico di estrema destra, sorpreso da più testimoni a schernire le forze dell’ordine, mentre si esibiva varie volte nel saluto nazista davanti alle stazioni di polizia.

“Il nazismo è colpa tua!”. La denazificazione nelle due Germanie e lo shock dei cittadini tedeschi.

Le conseguenze sulla società tedesca non sono state limitate ai bombardamenti, alla morte dei propri figli e mariti in guerra. Già dal 1946 si mise in atto il processo di denazificazione sul suolo della Germania occupata, che variò da zona a zona in base al grado e tipo di occupazione. Si iniziò con le linee guida per identificare i gruppi e le persone che avevano parteggiato, più o meno caldamente, per il nazismo, per poi successivamente prendere provvedimenti contro di loro. La vergogna fu messa nero su bianco.
Nella parte tedesca controllata dalle forze alleate, la Repubblica Federale Tedesca, il processo iniziò con la distribuzione e compilazione forzata di un modulo dal nome Fragebogen. Questo documento mirava a scandagliare il passato di ogni cittadino tedesco. Furono aperti più di 900mila casi con oltre 500 corti e i cittadini furono nuovamente spinti a compilare un modulo, chiamato Meldebogen e che li classificava in cinque diverse tipologie, dalle “Persone esonerate o non incriminate” fino a “Attivisti, Militanti” e “Criminali“.
Nel giro di un anno, 90mila nazisti finirono in centri di prigionia e quasi 2 milioni di persone si videro negare il posto di lavoro. Gli americani controllavano anche i media: nel 1946 controllavano 7 giornali, sei stazioni radio, 314 teatri, 642 cinema, 101 riviste, 237 case editrici e 7384 tipografie e librerie. Non minore fu la denazificazione imposta dall’Unione Sovietica. Si stima che furono oltre 40mila i nazisti, o presunti tali, a morire in campi di prigionia preposti. Questi “campi speciali” videro arrivare migliaia di persone, alcune sommariamente giudicate o addirittura senza processo, con arresti arbitrari. Nel frattempo, l’Unione Sovietica spingeva sulla propaganda anti-americana definendo la Germania Ovest come una “continuazione del regime nazista” e ricordando senza sosta lo spettro della guerra alla popolazione sotto il loro controllo.

Non furono rari i casi in cui i nazisti vennero ricattati dai servizi segreti russi per agire come spie in cambio di sconti sulla pena o amnistie

sottobanco. Nell’estate del 2014, il settimanale tedesco “Spiegel” ha raccontato come almeno 30 nazisti sarebbero in vita “grazie” alle campagne di reclutmento della Stasi – la principale organizzazione di sicurezza e spionaggio della Germania Est.
Josef Settnik, una delle SS in carica al campo di Auschwitz dal 1942 fino alla fine della guerra, se la cavò con una proposta di spionaggio all’interno della comunità cattolica del suo paese, mentre August Bielisch – guardiano di diversi campi di sterminio – venne reclutato nel 1971 per “difendere gli interessi della Germania Est“. Lui stesso dichiarò che voleva farsi “perdonare i propri errori“. Tutto ciò portò intere famiglie a vivere giorno dopo giorno con il rimorso, da una parte, e l’umiliazione di sentirsi “schiavi”, dall’altra, per poter espiare le proprie colpe.  Nel 1951 un documento del partito comunista SED contava 174.928 ex membri del partito nazionalsocialista o della Wehrmacht tra i propri iscritti.

Un grandissimo impatto sulla popolazione tedesca ebbe quella che poi sarebbe stata chiamata la “Campagna di colpa collettiva“. Fin dal 1944, gli alleati e gli Stati Uniti d’America in testa avevano iniziato una martellante propaganda che mirava a mettere di fronte ai cittadini tedeschi le conseguenze delle azioni di Hitler e dei suoi sostenitori. A molti civili tedeschi furono fatte sentire interviste a prigionieri dei campi di sterminio, furono affissi per le strade manifesti con fotografie terribili dei lager su cui campeggiavano scritte come “Tu sei colpevole di tutto ciò!” o “Questo è colpa tua!“. I cittadini tedeschi furono spesso obbligati a visitare i campi di concentramento e, a volte, anche a riesumare i cadaveri di uomini, donne e bambini dalle fosse comuni. Non erano rari i casi di svenimento e di shock. A risentirne maggiormente furono i cittadini che avevano vissuto nei dintorni dei campi e che mai avevano intuito che cosa accadesse dietro quelle mura. La campagna ebbe conseguenze che si riverbrarono negli anni, addirittura in maniera verticale tra le diverse generazioni. Il senso di colpa e l’umiliazione portò a un vero e proprio “tabù”, con una accettazione tutt’altro che rapida del popolo tedesco verso ciò che era accaduto.
Senso di colpa e umiliazione furono resi più crudi dall‘esodo terribile e mortificante al quale i tedeschi abitanti nella Prussia orientale e dalla Pomerania furono obbligati. Quello che venne considerato come il più grande movimento di popoli della storia moderna contò 15 milioni di persone, mentre altre 9 milioni, secondo lo storico canadese James Bacque, morirono di fame e stenti. Bacque documenta come “a causa delle condizioni terribili imposte alla Germania dagli Alleati, dopo la fine della guerra morirono tra 9,3 e 13,7 milioni di tedeschi. Fu un genocidio pianificato, come dimostra la direttiva JCS/1067 del piano di Henry Morgenthau, consigliere di Roosevelt, che prevedeva la deindustrializzazione della Germania, poi non attuata solo per motivi di politica geostrategica, in contrapposizione all’Urss“. Ci vollero diversi anni per tornare alla normalità. E nel frattempo i cittadini tedeschi, anche quelli che non aveva colpe, soffrivano.

La consapevolezza del nazismo arrivò lenta: l’Olocausto entra nelle scuole pubbliche solamente nel 1968. La prima rappresentazione televisiva sui crimini dei campi risale al 1978.

Che cosa avete fatto?” è stata la domanda che i bambini e i ragazzi tedeschi hanno fatto ai loro genitori, tornando da scuola dopo il 1968. Prima di questa data, di Olocausto non si parlava. Il regime nazista era tabù. Il nome Adolf Hitler veniva tolto da strade, palazzi, insegne insieme ai simboli nazisti, a suon di scalpelli e martelli. È dalla fine degli anni Sessanta che si inizia a ricordare, a esaminare, a comprendere. Oggi, la Germania non nega le atrocità della guerra. Anzi, la condanna del Terzo Reich è diffusa e capillare. Ma non è stato sempre così.
Fino agli anni settanta, di nazismo non si parlava, e men che mai di Olocausto e campi di concentramento. E se oggi i tedeschi hanno fatto pace con il passato cioè è dovuto a un cammino che ha coinvolto intere generazioni. Sicuramente, la divisione interna della Germania, mantenuta fino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, non ha aiutato. Le intromissioni esterne – americane e sovietiche – hanno sfruttato sensi di colpa e la paura degli ex-nazisti per dare carburante a quella che sarebbe poi stata la Guerra Fredda. E una nazione divisa, si sa, fa fatica a trovare un cammino comune, soprattutto su temi così dolorosi.
Irit Dekel, sociologa israeliana associata alla Humboldt Universität di Berlino, ha spiegato che “la prima generazione non ha negato l’orrore ma lo ha vissuto con una consapevolezza marginale e distaccata, senza un vero riconoscimento delle responsabilità“. Secondo la Dekel, la prima generazione di tedeschi nel dopoguerra aveva un vero e proprio “tabù emozionale” sulla vicenda, la seconda era certa che la colpa fosse delle istituzioni, mentre la terza ha compreso che “fosse responsabilità del popolo, “ma non di mio padre““.

Cellule terroristiche e neo-nazismo: il fantasma della svastica è duro a morire. Nelle periferie tedesche esistono ancora molti i buchi neri, veri e propri “luoghi di paura” che persino dai turisti evitano.

La paura di dover ammettere di avere un nazista come vicino di casa non è qualcosa che la Germania si è lasciata totalmente alle spalle. Poco più

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La casa bruciata da Beate Zschape. Photo credit: André Karwath / Wikipedia / CC BY-SA 2.5

di tre anni fa, destava molto scalpore l’attività di una cellula terroristica che si rifaceva a ideologie di estrema destra: la NSU. Gli appartenenti a questo gruppo erano Uwe Böhn­hardt, Uwe Mundlos, suicidatisi in un camper dopo una rapina andata male, e Beate Zschäpe, una donna che fece saltare in aria l’appartamento dei due per cancellare le prove e poi si consegnò alle autorità.
Queste persone si macchiarono dell’uccisione di 10 persone tre il 2000 e il 2006, oltre a svariate rapine. Inizialmente, la polizia locale fu convinta che si trattassero di regolamenti di conti tra bande e non indagò oltre. Solo in seguito a ulteriori prove che legavano la NSU al terrorismo di destra l’evento assunse portata internazionale. Un tale avvenimento è figlio della crescita dei gruppi di estrema destra, specialmente nei Länder tedeschi più decentrati, lontane dalla multiculturale e moderna Berlino. E spesso, per la vergogna di dover dire di avere neonazisti nella propria regione, i giornali tacciono.

Un cambio di rotta di questi partiti e gruppi di ideologia estremista e vicini al nazionalsocialismo si è verificato soprattutto a partire dal 1977. Fino a quel momento, il partito Nazional-Democratico tedesco (NPD) aveva utilizzato per divulgare le proprie idee soprattutto il parlamento e il confronto politico, riuscendo a entrare nei parlamenti della Pomerania e della Sassonia. Dal 1977, però, le cose cambiano. Il presidente dell’NPD di allora, Ugo Voigt , sposta la battaglia del partito dalle aule del parlamento alla strada. A livello locale, tra banchi della frutta, caffè e scuole. E’ anche merito di questa strategia se i partiti orbitanti nella galassia dell’estrema destra sono riusciti a svecchiarsi, annoverando nelle loro file uno stuolo di giovani studenti, forze fresche e attive.
Come conseguenza, anche se il fenomeno sembra risibile ai più, all’interno del Bundestag  (il parlamento tedesco) c’è chi ha già coniato il termine “luoghi di paura“. Wolfgang Thierse, prima presidente e poi vicepresidente del parlamento fino al 2013, ha detto chiaramente che in Germania ci sono “luoghi in cui le guide turistiche non vogliono avventurarsi, dove il razzismo la fa da padrone e dove i neonazisti difendono un feroce diritto alla calma e tranquillità per chi, dall’unificazione della Germania, ha avuto solo guai”.

Tags:denazificazione,Germania,hitler,Mein Kampf,nazismo

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