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Necrorealismo: il cinema di Yevgeny Yufit

Creato il 08 giugno 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

 Necrorealismo: il cinema di Yevgeny Yufit

Del cinema degli anni che precedettero la fine dell’Unione Sovietica, l’opera di Yvgeny Yufit rappresenta (con Sokurov, ma bene al di là) il discorso linguisticamente più estremo e narrativamente più radicale. Cineasta aggressivo e totalmente isolato, dopo il 2005 ha smesso di fare film, anche a causa dell’urto violento delle sue opere e di un’estetica irrecuperabile e oscuramente vertiginosa. A ciò si aggiunga la circostanza della scomparsa di Yufit che non si sa che fine abbia fatto, divorato dal suo stesso mito.

Yevgeny Yufit nasce nel 1961 a Leningrado e studia presso l’Istituto Tecnico Superiore della Fabbrica Metallurgica della stessa città, diplomandosi nel 1984. Nello stesso anno fonda insieme ad altri il movimento del “cinema parallelo” e fa nascere il Mžalalafilm, uno studio di cinema sperimentale, per cui realizza il suo primo cortometraggio Sanitary-Oborotni (1984). “Erano i temi della (pre-)perestrojka, in cui giovani e vecchi si recavano nei boschi fuori Leningrado, nudi o coperti di stracci, per toccarsi, accarezzarsi, molestarsi e picchiarsi, cercando di comportarsi come animali, talvolta persino come zombie. Queste situazioni riflettevano il lato più oscuro dell’ampio movimento del “cinema parallelo” e la corrente di Leningrado era guidata da Yufit, il suo esponente più appassionato e carismatico[1]”. Dopo alcuni altri macabri corti, nel 1988-89 studia presso la scuola di cinema di Aleksandr Sokurov, recitando in alcune delle opere maggiori del “cinema parallelo” e prendendo parte a mostre d’arte e di fotografia.

Necrorealismo: il cinema di Yevgeny Yufit

Nel 1992 Yufit realizza Papa, umer ded moroz, prima opera dello sconvolgente movimento da lui definito “necrorealismo”, una delirante combinazione di horror (soprattutto per la notevole influenza di George Romero) e neorealismo italiano, contrassegnato da un virulento nichilismo, da una visione feticistica della realtà, dal rifiuto della narrazione convenzionale e dall’uso esclusivo del bianco e nero o del seppiato. Tratto dal racconto La famiglia del Vurdalak di Aleksej Tolstoj, è la storia di un biologo, ossessionato da un’opera che sta scrivendo su una nuova specie di faina, che, in campagna dal cugino per un paio di giorni, assiste ad una serie di inquietanti fenomeni: da un gruppo di uomini vestiti di nero che girano per la città seviziando chiunque capiti loro a tiro, dalle stranezze e le debolezze della sua stessa famiglia al suicidio di due bambini. Nel frattempo, un uomo cieco ed un bambino malaticcio tendono trappole mortali ad innocenti vittime in un labirinto sotterraneo. Con lo stile tipico della poesia visiva orientale di Tarkovskij o Paradzanov (fatto di campi lunghi, narrazione lirica che inasprisce le tensioni del racconto, vocazione concettuale alla metafisica), Yufit eccede da ogni norma descrivendo un paesaggio oscuro in cui si parla pochissimo e nel quale la parola è deliberatamente volta a frantumare il rifiuto della rappresentazione diacronica, favorendo un processo di pura atmosfera nella quale il senso delle redenzione cede il passo ad un vuoto gelido: così, il senso di privazione spirituale del film è assoluto. L’incubo di Yufit si realizza tutto in una suggestione visiva assai lontana dalla sensibilità occidentale, in quanto non si cura di attribuire un qualche senso alla narrazione (frammentaria, incoerente, talvolta del tutto inesistente), e così il ritratto della vita umana e della sua insensatezza possiede un’oscura poesia ornata di simbolismi e metafore nella quale agiscono personaggi senza speranza e senza scampo, reietti dell’esistenza, desolati superstiti del nulla. In questo senso Yufit prosegue il discorso di Tarkovskij radicalizzandone il senso: la fine dello spiritualismo ha prodotto una catastrofe nella quale l’angoscia non è altro che l’immagine riflessa dell’orrore.

Necrorealismo: il cinema di Yevgeny Yufit

Il discorso di Yufit prosegue con Derevyannaya komnata (1995), sulla falsariga del primo film, e nel 1998 con Serebryanye golovy, storia di uno scienziato che conduce esperimenti su se stesso mescolando legno e materiale umano, un’opera che coniuga scienza, discorsi filosofici e misticismo in un paesaggio brullo e simbolicamente postatomico.  Col nuovo secolo, il regista viene scoperto e sostenuto fra l’altro dal Fondo di Hubert Bals del Festival di Rotterdam, e così prosegue la sua ricerca mettendo a confronto i mondi arcaici con la nuova tecnologia mediatica e gli utopici progetti antropologici. Dopo Ubitye molniey (2002), nel 2005 Yufit realizza il suo ultimo film: Pryamokhozhdenie. Un artista si trasferisce insieme con la moglie e i due figlioletti in una vecchia casa di campagna in cerca di nuova ispirazione e di nuovi soggetti per il suo lavoro. Quando però i bambini rinvengono in un ripostiglio i rulli di un film girato negli anni 30, l’uomo è costretto a confrontarsi con un segreto del quale ignorava l’esistenza. La pellicola contiene un documentario che testimonia di spaventose biomanipolazioni condotte su alcune scimmie, capaci di sconvolgere – nell’ambito di un progetto commissionato dalla polizia segreta – la teoria evoluzionistica e forzare l’umanità verso i terribili sviluppi di una politica eugenetica, e nelle quali era stato coinvolto suo padre, illustre biologo, da tempo scomparso. Il film è un’autentica proliferazione di stranissime sequenze a scatti (intellettualmente difficili e di ritmo assai lento) su una traccia da film horror di serie B; Yufit riflette sull’esistenza attraverso il formalismo del proprio rigorosissimo cinema, fatto di accumulazioni narrative, primi piani, larghe panoramiche su paesaggi desolati e indistinti e un bianco e nero di raro splendore, che coniuga ansie psichiche a sottotesti d’inquietante riferimento politico. Poi, per Yufit, il nulla.

Beniamino Biondi

[1] Barbara Wurm.


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