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Nel caso non ci rivedessimo

Creato il 14 febbraio 2016 da Sara
Nel caso non ci rivedessimo"Fu dopo la scomparsa di Ilse che i figli cominciarono a pensare che le lettere dei nonni Klein meritavano di essere conosciute, anzitutto dai nipoti. Ma che avrebbero potuto interessare anche un più vasto pubblico......dopo la memoria dei protagonisti che fanno "la grande storia", sono proprio le vicende della gente comune, die kleine Leute come li chiamava Bertolt Brecht che attirano oggi sulle vicende degli anni della guerra....."

Fra le innumerevoli testimonianze, autobiografie, narrazioni di storia con la "s" minuscola pubblicate in questi anni, mi è capitato di leggere di recente "Nel caso non ci rivedessimo" di Giorgio Sacerdoti, pubblicato nel 2013 dalle edizioni Archinto. "Nel caso non ci rivedessimo, cara Ilse, pensa sempre che l'Inno alla Gioia inizia con "Gioia, bella scintilla divina" ma si chiude con "Saldo coraggio quando la sofferenza è grande"! Il titolo del libro trae la sua ragione di essere dalle profetiche parole di nonno Siegmund nel ricco carteggio fra i vari membri della famiglia, in particolare la corrispondenza dei nonni materni negli anni '40-43 con la figlia Ilse ( madre di Giorgio Sacerdoti), lettere conservate silenziose per settant'anni in una scatola di scarpe dentro una scrivania e alle quali l'autore ha sentito, come dice in un'intervista, "il dovere morale" di dare voce.
La prima edizione del libro è uscita in Germania perché la maggior parte del carteggio è in tedesco. Tedeschi da secoli, fin dal 1600 come testimonia l'albero genealogico di una nonna, a Colonia in Blumenthalstrasse 23 ci abitavano i Klein, una famiglia ebrea borghese dalla vita "normale", il padre Siegmund avvocato ben inserito, la moglie Helene, i due figli Ilse e Walter giovani studenti, ma come insegna la Storia con la "s" maiuscola più nulla sarà "normale" con l'avvento del nazismo. Col numero chiuso per gli studenti ebrei Ilse dovrà abbandonare gli studi universitari ed emigrerà a Parigi, il padre Siegmund perderà progressivamente la possibilità di lavorare finendo col rifugiarsi con moglie e il figlio Walter ad Amsterdam e il bello è che per lasciare il loro paese, Heimat di Goethe e Schiller, non solo dovranno abbandonare tutti i loro averi, ma pagare pure " la tassa di emigrazione dal Reich".
 Landau, Siegl, Rothschild, Wolfson, Sichel, Meyer, sfilano i cognomi di nonni, cugini, nipoti, parenti vari della famiglia Klein a cui si aggiungeranno nella folta corrispondenza i nomi italiani di Donati e Sacerdoti perchè nel frattempo Ilse, durante il soggiorno parigino, conoscerà il futuro compagno di vita Piero Sacerdoti e questo ramo italiano finirà per incrociare i suoi destini con i tedeschi Klein.Sfilano i nomi di città e località-rifugio di mezza Europa, dall'Olanda a Francia, Italia, Svizzera, Inghilterra, Belgio e America perché sono anni di un fuggi fuggi generale, salvare la pelle come si può e come le circostanze lo consentono. Alcuni fra mille peripezie ce la faranno, altri no come i genitori di Ilse e il fratello Walter, "i sommersi e i salvati" suggerisce la magistrale e tragica sintesi di Primo Levi in proposito.E sfilano pure i nomi tristemente noti di centri di raccolta e di smistamento:  il "Vel d'Hiv" di Parigi e "il campo di Gurs" nei Pirenei (da cui Ilse verrà liberata e potrà ritrovare il suo Piero, futuro padre dell'autore), la prigione di Dôle nella regione del Giura francese (dove  Walter verrà inizialmente detenuto nel suo tentativo fallito di raggiungere Marsiglia da Amsterdam), il suo trasferimento ad altri campi fino a Drancy, tappa privilegiata per Auschwitz, destinazione finale che il padre Siegmund condividerà col figlio, ma un anno dopo, nel '43, passando dal campo olandese di Westerbork baracca 67 dato il suo arresto ad Amsterdam. Mamma Helene si sarà risparmiata il "viaggio" spegnendosi per malattia e dolore in una clinica nei pressi di Amsterdam ricoverata sotto falso nome.
Ma sono le lettere che mi hanno colpita ed è di loro che vorrei parlare, di ciò che dicono e soprattutto di ciò che non dicono e meno male che l'autore ha provveduto a contestualizzarle ogni volta dettagliando con precisione i riferimenti storici che fanno da sfondo. Sorprende così il contrasto fra la drammaticità degli eventi e la sua traduzione sfumata sul foglio bianco nella tensione costante di non allarmare ulteriormente i propri cari, di condividere notizie tentando di risparmiarsi a vicenda il fardello delle difficoltà. Già, se è vero che "le bonheur n'a pas d'histoire" come annotava Balzac, non a caso tutte le favole finiscono con uno sbrigativo "e vissero felici e contenti", queste lettere avrebbero avuto tanto da dire quanto a sofferenze e privazioni, eppure quasi non se ne legge, meglio affidarsi ai bei ricordi, meglio rassicurare con i frammenti che restano di una quotidianità che si vorrebbe "normale", come il complimentarsi per una ricetta di cucina ben riuscita. Scrive Helene alla figlia Ilse: "Sei stata veramente brava, cara Ilse, ad essere riuscita a fare la torta di ciliegie. Era giusto mettere le ciliegie crude sulla pasta cruda, poi bisogna stenderla in maniera compatta, si ritira sempre..."  Diretto nel suo scrivere alla sorella solo Walter, con la franchezza non mediata dei suoi 25 anni " Non  ho mai sofferto la fame così tanto come ora, mi reggo a malapena in piedi....perchè da quando è arrivato il tuo pacchetto, dal quale sono stati rubati un barattolo di sardine e un uovo, non ho avuto nient'altro...."

Molto si è scritto e discusso di quella "banalità del male" evocata dalla Arendt durante il processo Eichmann, ma leggendo questo libro a me è venuto da pensare alla "banalità del bene" se per bene possiamo intendere tutti quelle attenzioni grandi e piccole di cui vogliamo circondare le persone che amiamo, i pudori del non dire, le rassicurazioni e anche le pietose bugie di cui diventiamo capaci . Certo la censura e il timore che le lettere non giungessero a destinazione costringevano a tacere nomi, a omettere dettagli, a usare degli eufemismi "lavoro nella vecchia patria" per esempio per non scrivere "deportazione in Germania", ma non sono forse testimonianze di "banalità del bene" il silenzio su difficoltà e pericoli ad Amsterdam? Il dar conto di particolari insignificanti mentre fuori infuria la bufera? Ilse che nasconde ai genitori il più a lungo possibile la prigionia del fratello? Tacere da parte di Siegmund alla figlia la morte della moglie e continuare a scrivere più lettere firmando in sua vece?
La banalità del bene che fa fare cose straordinarie, nella vita reale prima ancora che nell'invenzione letteraria. Anche lo scrittore Romain Gary nel suo libro "La promesse de l'aube" racconta di tutte quelle lettere affettuose e rassicuranti ricevute sui campi di battaglia dalla madre. Lei era morta da un bel pezzo, ma le aveva scritte prima di  andarsene e consegnate a un'amica affinché le spedisse di volta in volta al figlio lontano che avrebbe saputo solo tornando a casa a guerra finita.  

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