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Nel mondo del fumo e dell’arrosto, Luis Suàrez è l’arrosto affumicato

Creato il 29 giugno 2014 da Nicola Mente

departamento-de-salto-en-uruguayLuìs Alberto Suárez è nato ventisette anni fa a Salto, una città di poco più di centomila abitanti situata nell’Uruguay nord-occidentale, al confine con l’Argentina e a circa 500 chilometri dalla capitale Montevideo. Cittadina tranquilla, Salto esprime fedelmente tutte le caratteristiche del popolo uruguayano. Centro di produzione agricola, centro turistico e importante zona dal punto di vista ambientale (terme, fiumi e parchi naturali), ha dato alla luce quello che è considerato uno dei più grandi scrittori sudamericani, Horacio Quiroga. In una delle sue opere, “Il puritano”, Quiroga scrisse che «ci sono sentimenti a cui non si può dare corpo verbale, ma che devono essere inseguiti a occhi chiusi». Ecco, Luìs Suárez, quarto di sette fratelli, credo abbia fatto sua questa intuizione del suo illustre concittadino, tant’è che a occhi chiusi ha lasciato la sua terra a soli 19 anni, per approdare in Europa a inseguire quell’impetuoso sentimento a cui lui ha dedicato la sua esistenza, ad occhi chiusi: il futbol.

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Come Suárez centinaia di giovanissimi calciatori sudamericani attraversano l’Atlantico ogni anno, carichi di speranze e ansiosi di mostrare al mondo quanto sudore possa esserci su quel contratto strappato alla società italiana, tedesca, spagnola, olandese. Centinaia di ragazzi cresciuti a pane e calcio e impregnati di quella “garra” propria del popolo uruguayano e sudamericano in genere, la grinta di lottare centimetro su centimetro per ottenere risultati, per superare gli ostacoli, per rivendicare il proprio spirito. Luìs Suárez è fatto così, mai abituato a cedere il passo. D’altronde, se a 19 anni cambi continente e finisci in Olanda, senza “garra” è dura resistere. Fredda dentro e fuori, l’Europa rappresenta quella terra ostile da conquistare sulla via dell’Olimpo calcistico. Luìs questo l’ha sempre saputo, difatti lo scotto per lui non è stato alto, a livello di risultati. Gol a raffica sin dalla sua prima stagione, ad acclarare il suo meraviglioso talento e  questa granitica solidità di spirito che a volte straborda: sì perché un ragazzo sudamericano che viene a giocare in Europa marcia sempre sulla sottile linea che c’è tra l’affermazione e l’oblio, in un mondo tanto diverso dal suo, un mondo dove la competizione è serrata ma disumana, e basta una soffio di vento a farti cadere giù dalla torre. Un’avventura iniziata a Groningen, proseguita ad Amsterdam con la maglia dell’Ajax, ed esplosa in tutta la sua luminosità a Liverpool sponda Reds, a confermare la tradizione che vede Anfield Road come casa di campioni sempre poco banali.

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Luis però non è mai stramazzato, mai, e ha sempre accettato qualsiasi sfida gli si è presentata davanti: un combattente abituato da sempre a guadagnarsi il diritto di chiudere gli occhi e inseguire i propri sogni. Il rovescio della medaglia è questa sua indole da guerriero che a volte lo ha portato sul patibolo del giudizio. Al netto dei suoi numeri da fuoriclasse, ha la particolare tendenza ad entrare in processi di trance agonistica furiosa, in cui il lume della ragione cede il passo alla furia che insegue ad occhi chiusi il traguardo, costi quel che costi. Così è capitato che durante fasi di gioco concitate mordesse il suo diretto marcatore. Ed è capitato anche ai Mondiali, durante la sfida con la nostra nazionale. Ad approfondire la questione, si può evincere come il morso (tanto demonizzato a livello d’immagine) sia proprio un potente simbolo per inquadrare il carattere del ragazzo: “pazzo”, “vampiro”, “animale” sono gli aggettivi più in voga sulla Rete, però queste sono parole che valutano la superficie, appunto. A fondo, il morso rappresenta un volersi divincolare da tutto ciò che frena nella rincorsa al traguardo visto non come gingillo da mostrare, ma come realizzazione interiore. Ed è una cosa che inizia e che finisce lì, in battaglia, senza alcuna mancanza di rispetto, anzi, quasi racchiudendo un carnale rispetto per l’avversario campale. Ecco perché credo che su Luis Suárez la punizione sia stata davvero eccessiva, ecco perché c’è la sensazione che il calcio contemporaneo stia passando attraverso un periodo in cui i propri valori -profondi, non sempre mainstream, e sporchi di fango- sono piegati in favore delle emozioni posticce e dalla retorica di ciò che “appare”. E non è questione di tatuaggi o piercing, è questione di ciò che c’è dietro: Suàrez ad esempio ha due tatuaggi, a indicare i nomi dei figli, che bacia dopo ogni esultanza.

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Nella realtà non è certo l’outfit che ci dice com’è fatta una persona, il problema è un processo molto più grande, che invece va proprio in direzione opposta. Un processo teso a confermare l’assurda teoria secondo cui anche nella realtà più sanguigna, l’immagine è tutto. Questo è un discorso assai pericoloso, e da ciò ecco che nascono calciatori assolutamente estranei alla logica del campo e schiavi dell’iconografia. Eppure Suàrez non ha mai mostrato segni di squilibrio fuori dal campo, dove è marito del suo primo e unico amore Sofia Balbi, e padre di Delfina e di Benja. Dunque il problema non è la cresta o il piercing in sé, ma l’importanza che queste facezie stanno assumendo in un mondo dove per i gingilli non c’è mai stato spazio, e gesti in favore di camera che ricordano più un clip di una popstar che l’esplosione sana di emozioni. E poi gossip, pacchianate, rotocalchi. Tanto meglio se poi uno è bravo, anche se neanche questa caratteristica pare essere più un fattore determinante: guardate Beckham, che ormai non gioca neanche più. Basti pensare che i calciatori indagati sul calcioscommesse possono prendersi 2 mesi, mentre quelli a cui “scappano” tre morsi in campo nel giro di quattro anni prendono 4 mesi più interdizione dal ritiro, quasi fossero davvero Hannibal Lecter. Questo perché? Perché lo spartiacque tra bene e male non è deciso da te, e se in un salotto sportivo mediatico ti scappasse che in campo si vorrebbero 11 Suárez, verresti guardato male, perché in campo non si morde. I morsi sono da animale, e noi animali non siamo, forse perché poco abituati al pericolo vero di soccombere, che è quello ancestrale, quello che nasce da bambino, o meglio, che qui nasceva da bambino, una volta. Ecco perché per me un morso in campo non merita tutto questo livore. Ecco perché forse è meglio avere in campo 11 Suàrez, morsi compresi. Perché, come dice Quiroga,  «il pericolo esiste sempre per l’uomo di qualsiasi età; se però la sua minaccia si insedia sin da piccolo, questo ti abitua a contare su nient’altro all’infuori delle proprie forze». Per inseguire un sogno ad occhi chiusi, e non per apparire.


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