Mi dimentico spesso il perché e il percome di certe letture o acquisti; anzi, mi ripropongo sempre di segnarmi la spinta che mi ha portato da qualche parte del mio percorso di lettura e poi me ne scordo, anche se sugli ultimi due, tre romanzi acquistati ho annotato, nella pagina vuota prima del frontespizio, chi me li ha suggeriti.
In questo caso, l’input è venuto da una trasmissione mattutina di Radio Popolare, riportato dal marito che ha cercato di raccontare per filo e per segno che cosa succedeva nel libro (ha desistito quando mi sono coperta le orecchie e ho cominciato a cantare Nella vecchia fattoria a voce alta).
Tutto per dire che il poco che gli ho permesso di riferire mi ha comunque incuriosito, e ho voluto leggermi L’ospite perfetto di Herbert Liebermann.
Iniziato la sera, e riposto dopo un paio di capitoli perché mi aveva avvolto in un’atmosfera sottilmente angosciosa. Capisco che l’angoscia, di per sé, dovrebbe essere un’oppressione tormentosa o di profonda inquietudine ma, confermo, qui non c’era niente di profondamente spaventoso o inquietante; tuttavia ce n’era abbastanza per sentire un leggero freddo lungo le spalle e la voglia di rimettere il libro a posto e di non sapere come sarebbe andato a finire. Nello stesso tempo, va detto, la tentazione era di andare avanti a oltranza, proprio per il desiderio di venire a capo di quel che stava succedendo nella tranquilla vita di due anziani coniugi, Graves e sua moglie Alice, ritiratisi a vita privata e solitaria essenzialmente per motivi di età e salute.
Ai due capita infatti di far entrare in casa un operaio inviato dalla ditta che deve manutenere e rifornire la loro caldaia, ed è da questo incontro casuale che parte una spirale insolita (per loro), bizzarra (per noi) di ragionamenti, tentativi, ripensamenti, passi avanti e passi indietro nella gestione della vita quotidiana, dei cambiamenti che si presentano e che appaiono alternativamente allettanti o spiacevoli.
Oltre al giovane operaio, che presto acquisterà peso e volume nella loro vita e nella nostra lettura, nell’isolamento della casa dei protagonisti fanno a volte capolino alcuni comprimari: il più caratterizzato è lo sceriffo del paese, figura un po’ ambigua nella sua veste di difensore della legge, ma ci sono anche il ferramenta, o il pastore, i bulli del paese e alcuni altri. Magari alcuni di loro fanno soltanto delle comparsate, ma, insieme all’”ospite perfetto” del titolo (a volte buon folletto o angelo protettore, a volte tutt’altro) contribuiscono ad appesantire la vita dei due protagonisti e a dare al tutto una direzione sempre più fastidiosa e inquietante verso una situazione che diventa tesa e claustrofobica (come il Crawlspace del titolo originale, che si potrebbe tradurre cunicolo, o seminterrato, ma che nella traduzione italiana il protagonista chiama semplicemente “l’intercapedine”).
Allo stesso tempo, sempre più tesi diventano i rapporti tra i due coniugi, mentre l’autore ci fa entrare nelle loro teste e ci fa seguire i loro contorti ragionamenti. Contorti non perché complessi o assurdi, ma perché, così come l’ospite, anche loro oscillano tra un atteggiamento di apertura e uno di timore e chiusura, tra il desiderio di fare del bene e quello del più puro egoismo, e così via e così via. Lo scioglimento finale, proprio nell’ultimo capitolo, non aggiunge molto alla trama in sé, e mi è servito più per tranquillizzarmi (della serie: “Tranqui, that’s all, folks, non è niente di che”) che per spiegarmi veramente ciò che è successo.
Più mistery psicologico che classico thriller (all’americana, per intenderci), con il balletto dei tre protagonisti che vanno, vengono, salgono e scendono non solo le scale di casa (e dell’intercapedine) ma anche quelle dei loro sentimenti e dei loro rapporti, non fa pesare i suoi cinquant’anni di vita ed è una lettura gradevolissima (angoscia, sì, ma con giudizio).
Herbert Lieberman
L’ospite perfetto
traduzione di Raffaella Vitangeli
minimum fax 2022
356 pagine, 19 euro