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Nella polveriera Iraq

Creato il 13 settembre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Marta Ciranda

Nella polveriera Iraq
Sono già passati undici anni dall’undici settembre. Ben undici. Undici anni in cui, per riecheggiare le parole con cui Obama, solo due giorni fa, ha ricordato le vittime di Ground Zero, l’America è “divenuta più forte”. Ma se gli USA hanno conquistato, probabilmente, maggiore unità e solidità proprio come conseguenza degli attacchi del 9/11, l’esatto contrario è avvenuto nei Paesi che essi hanno occupato militarmente per anni: sebbene le intenzioni – almeno quelle dichiarate – fossero ben altre, vale a dire incoraggiare la pacificazione e lo sviluppo di forme di governo democratiche in zone del mondo strategiche, Iraq e Afghanistan possono oggi definirsi, purtroppo, dei veri e propri failed States. L’Iraq, in particolare, sta oggi vivendo una tragica escalation di violenze, escalation che si accompagna a una profonda crisi politica. Una situazione complicata ulteriormente dalla vicinanza della Siria, Paese con cui l’Iraq ha in comune un lungo confine e – a quanto pare – un futuro quanto mai incerto.

L’escalation di violenza – I fatti degli ultimi giorni non hanno, forse, bisogno di commenti: il numero dei morti parla da solo, raccontandoci la sofferenza di una popolazione senza più voce perché troppo spesso dimenticata dai mass media occidentali. Solo nell’ultimo fine settimana (lo scorso 9 settembre) la violenza settaria ha lasciato sul campo più ottanta morti e più di trecento feriti, coinvolti in almeno una ventina di diverse esplosioni di autobomba in tutto il Paese – esplosioni che hanno colpito per lo più zone sciite o presidi delle forze di sicurezza irachene. L’episodio più grave si è verificato ad Amara, dove l’esplosione è avvenuta in un affollato mercato nei pressi della Moschea sciita di Ali al-Sharqi e ha ucciso sedici persone, ferendone almeno sessanta. Esplosioni si sono verificate anche nella capitale, nei pressi del Consolato onorario francese di Nassiriya e nella città di Kirkuk, dove è stata colpita la sede della compagnia petrolifera pubblica irachena North Oil. Insomma, una vera ecatombe, che dimostra quanto il Paese sia ancora “in guerra” – e quanto mai lontano da una pacificazione reale e duratura.

Rivendicazioni… e “coincidenze” – La rivendicazione degli attentati dello scorso fine settimana non si è fatta attendere: un’organizzazione nota come “Stato islamico dell’Iraq” (ISI), braccio armato di al-Qa’ida, se ne è attribuite tutte le responsabilità con un crudo comunicato diffuso lunedì. Gli attacchi, a quanto vi si legge, sarebbero una “reazione alle uccisioni e torture di prigionieri sunniti incarcerati nelle prigioni sciite”. Al tempo stesso, una “coincidenza” – la concomitanza temporale tra gli attacchi e la condanna alla pena di morte inflitta all’ex Vicepresidente al-Hashimi – fa ipotizzare che gli attentati siano da leggere sotto la lente della più generale crisi politica che il Paese vive almeno dallo scorso dicembre, a dispetto, ancora una volta, delle parole di Barack Obama, che proprio in quelle settimane festeggiava la fine dell’operazione Iraqi Freedom plaudendo la capacità del Paese, finalmente “libero”, di autogovernarsi.

Al-Hashimi VS al-Maliki – Il braccio di ferro tra il Primo Ministro Nouri al-Maliki, sciita, e il suo oramai ex vice Tariq al-Hashimi, sunnita, prosegue, in effetti, da diversi mesi: il primo avviso di garanzia destinato ad al-Hashimi, colpevole di aver duramente criticato i modi autoritari del Premier, risale all’inizio del dicembre scorso, quando il Primo Ministro accusò il suo vice di essersi macchiato di efferati attentati terroristici verificatisi tra il 2006 e il 2007 – una mossa, questa, che portò il Governo sull’orlo del collasso in un momento quanto mai delicato. Al-Hashimi è in fuga praticamente da allora: dopo essersi rifugiato nel Kurdistan iracheno si è stabilito, nell’aprile scorso, in Turchia, che gli ha offerto asilo. E proprio in Turchia la condanna a morte ha raggiunto il contumace, giudicato, stavolta, colpevole per l’uccisione di due persone: una condanna che, inevitabilmente, è stata definita “politica” dal partito di al-Hashimi, al-Iraqiya; una condanna che l’ex Vicepremier ha sempre rigettato, affermando di non riconoscere l’autorità del Tribunale che l’ha emessa.

Lo stallo, la violenza – Il braccio di ferro tra al-Hashimi e al-Maliki, quindi, non solo è esso stesso generato, tra altre cose, anche da tensioni settarie preesistenti, ma ne sta generando, a sua volta, di ulteriori e gravissime, rischiando di far ripiombare il Paese nel caos, come già avvenne tra il 2006 e il 2008. Dal “passaggio di consegne” americano, infatti, la cadenza degli attentati di matrice terroristica è praticamente mensile, mentre mancano provvedimenti di governo non solo in grado di arrestare la violenza, ma anche di incoraggiare una almeno minima ripresa dell’economia, messa a durissima prova da anni di conflitto.

Lungo il confine – La quanto mai precaria e complessa situazione irachena rischia di ingarbugliarsi ulteriormente come riflesso della gravissima crisi in atto nella vicina Siria. Come sottolinea, ad esempio, Domenico Chirico dell’ONG “Un Ponte Per…”, i siriani, che negli anni scorsi hanno accolto nelle proprie città almeno un milione di iracheni, adesso si trovano a dover, a loro volta, fuggire, in un “tragico gioco delle parti in cui i rifugiati di ieri sono gli ospitanti di oggi”. E fuggono proprio verso l’Iraq, che negli ultimi mesi ne ha accolti, secondo una stima delle Nazioni Unite, almeno ventimila. Ma se molti siriani sono stati sistemati in campi profughi attrezzati nel Kurdistan iracheno, moltissimi altri sono rimasti, invece, nel limbo, in quella “terra di nessuno” che è il confine, troppo spesso lasciato chiuso dalle autorità di Baghdad. Di qua l’inferno di Assad. Dall’altra parte, la polveriera Iraq.

* Marta Ciranda è Dottoressa in Cooperazione internazionale e tutela dei diritti umani nel Mediterraneo e in Eurasia (Università di Bologna)


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