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nessun dove

Creato il 26 agosto 2015 da Gaia

Solitamente io cerco di esprimere il mio pensiero, non quello di altri, perché penso sia meglio che ognuno dica da sè quello che ha da dire. Un conto è citare, un altro farsi portavoce di un pensiero che non è il proprio, asciugandolo, selezionandolo e parafrasandolo fino a rischiare di distorcerlo.

Volendo presentare William Morris nello scorso post, mi sono accorta che ho già fatto casino. Il fatto è che William Morris, più che autore di singole opere verso cui indirizzare gli interessati, fece della propria intera vita un grande progetto. Nel cercare di introdurre questo grande progetto in poche parole, è impossibile non appiattirlo o escludere aspetti fondamentali.

Detto questo, ho comunque deciso di fare un riassunto di News from nowhere, tradotto in italiano come Notizie da nessun dove, il suo libro al giorno d’oggi più famoso; uscì nel 1890, a puntate su una rivista socialista, con il sottotitolo: Un’era di riposo. Non è un libro in cui la trama conta molto, però vi avverto ugualmente che il mio riassunto potrebbe diminuire il vostro piacere nel leggerlo.

Nonostante questo, anziché dirvi “leggetelo e basta” (l’ho già fatto con un altro libro, non posso esagerare), provo a riassumervi le idee che esprime, idee che difficilmente smetteranno un giorno di essere rilevanti.

Una sera, presso uno dei primissimi circoli socialisti della Londra vittoriana, un gruppo di amici si mette a discutere animatamente di come sarà il mondo all’indomani della Rivoluzione. Uno dei partecipanti alla discussione alla fine se ne va e torna a casa sua, rimuginando. Se solo, pensa, se solo potessi vedere un giorno di questo domani!

È una delle prime notti d’inverno, il cielo spazzato da un vento rinfrescante, e nitidio. Il nostro personaggio raggiunge il suo squallido quartiere londinese, entra a casa e si addormenta. Il giorno dopo, quando si sveglia, è giugno.

Presso il Tamigi, insolitamente limpido, il protagonista incontra un barcaiolo, ma un barcaiolo insolito: un bel ragazzo vigoroso, abbronzato, cordiale, sprizzante allegria e salute, e vestito con una tunica blu nello stile del mille trecento. Quando Guest, il protagonista, si offre di pagarlo per averlo portato a fare il bagno, il giovane fa fatica a capire di cosa sia parlando. Ah, il denaro, ne ho sentito parlare… bè, noi non sapremmo che farcene.

Dove siamo? Secondo William Morris, siamo nel Comunismo. Il resto del libro è dedicato a descrivere e spiegare questa insolita società felice, dove le persone si chiamano l’un l’altro neighbour, vicino, si prendono per mano, si complimentano, si cercano, condividono case, spazi, cibo e lavoro e non possiedono nulla.

Al centro di tutto, non solo come fine ma anche, parimenti, come conseguenza, c’è la bellezza. Tutto è bello, tutto è gradevole per i sensi: le case e gli edifici sono armonici, decorati, piacevoli e appartengono a varie epoche e vari stili; i vestiti sono colorati e ricamati, accarezzano il corpo senza deformarlo; il cibo è eccellente, i profumi inebrianti, i boschi selvaggi ma non abbandonati, gli oggetti di altissima qualità, ma gratuiti, i giardini rigogliosi, i falciatori pittoreschi, le barche dipinte, e la gente! La gente è sana, abbronzata, tonica, elegante, gli uomini virili, le donne bellissime, sono tutti felici e si vede.

Ricordo a questo punto che Morris scriveva in piena epoca vittoriana, in pieno impero britannico e in piena esplosione industriale. La Londra della sua era, accumulatrice e nevrotica, era popolata da lavoratori emanciati che vivevano in condizioni paragonabili a quelle delle più orrende bidonville del mondo di oggi; abbruttiti dalla fatica, dal degrado e dalla mancanza di speranze, coperti di stracci, i poveri inglesi che incontrava Morris erano puzzolenti, ingobbiti e servili, grigi e già vecchi prima del tempo. I bambini lavoravano nelle fabbriche (anche, pare, nelle sue). I cieli erano neri per il carbone, i fiumi inquinati. Persino le classi che si arricchivano con tutto questo erano quanto di più lontano si può immaginare dall’utopia di Morris: le donne pallide e snervate dall’inattività, gli uomini avidi, la sessualità sfogata nella prostituzione e la famiglia un’istituzione repressiva. Il colonialismo e l’imperialismo inghiottivano ogni giorno nuove terre, sacrificandone la cultura, la libertà e la dignità all’altare dell’espansione commerciale.

E tutto questo per produrre beni industriali in gran quantità, beni che secondo Morris erano in qualità del tutto insoddisfacenti, robaccia che faceva male sia a chi la produceva che a chi la accumulava.

La vita di Morris fu una rivolta contro tutto questo; News from nowhere, la sua alternativa. Se la società che descrive come ideale possibile finisce per somigliare a una rievocazione medievale della nostre senza le auto e i piatti di plastica, è perché lui guardava al passato come modello, ma ignorandone o eliminandole gli aspetti di superstizione, costrizione e schiavitù.

L’architettura torna in maniera quasi ossessiva nelle descrizioni del protagonista. In parte, questo è dovuto al particolare interesse dell’autore, che cominciò la sua vita girando tra le vecchie chiese e i vecchi palazzi della campagna inglese, già da bambino. E così come a leggere Hemingway sembra che agli spagnoli non importi che della corrida, così leggendo Morris sembra che gli inglesi del futuro siano tutti esperti di architettura. Al tempo stesso, però, questa centralità illumina altre idee molto importanti. Guardandoci intorno, ci accorgiamo che l’architettura ha raggiunto forse il suo punto più basso nell’intera storia umana, proprio mentre agli architetti è stato permesso di fregiarsi addirittura del titolo di stelle, o ‘archistar’ – in pratica, autori di progetti megalomani sempre un po’ fuori contesto, iper-individualisti, xtridenti, sostanzialmente vuoti, pugni negli occhi di chi nelle città ci vive, e le conosce come armonie accumulate nel tempo, non ricettacoli di vanità straniere. E tutto il resto, quello che è costruito da architetti meno famosi o più umili geometri, è tutto una periferia anonima, un condominio soffocante, una palazzina senz’anima, un parcheggio, un capannone, un’autostrada, un centro commerciale… i centri storici più belli cancellati o ridotti a cartoline in cui la gente non può più permettersi di vivere perché la ricchezza di alcuni o il turismo di molti hanno reso i costi proibitivi per tutti gli altri. Se Morris inorridiva per gli edifici dell’Inghilterra del suo tempo, a vedere l’Europa oggi probabilmente morirebbe di dolore.

Io mi sono accorta personalmente, e ve ne sarete accorti anche voi, di quanto male si sta in un edificio brutto: sono spiacevoli le luci artificiali, gli spazi sproporzionati, i materiali scadenti, i parcheggi, l’asfalto… spiacevoli in un modo profondo, che ci entra nell’anima e condiziona la nostra felicità fino a renderla impossibile. Stare in uno spazio ben pensato e ameno ci aiuta ad essere felici; uno spazio brutto ci rende tristi. È così e basta. E allora nell’utopia di Morris ogni edificio è bello a modo suo, e costruito con la partecipazione di tutti; i bambini imparano presto come si fa un tetto, e i vecchi scelgono se vivere in un giardino o in un palazzo ricco di storia; i cavalli attraversano serenamente luminosi cortili e le donne spazzano allegramente corridoi comuni splendidamente decorati. Quando lo si legge, sembra stucchevole; quando lo si immagina, meraviglioso.

L’urbanistica, però, non è solo estetica. La Londra del futuro immaginato da Morris è ariosa, salubre, un giardino. Io ho vissuto a Londra, tra l’altro negli anni in cui più o meno è ambientata questa utopia, e Dio mio quanto poco si è avverata! Pur con tutto il suo fascino Londra oggi è tremenda, una metropoli disumana, stritolante. Morris la immaginava invece come una città a misura d’uomo, senza poveri, senza stress, e con la libertà per ciascuno di abitare dove vuole: è il Comunismo, non dimentichiamolo, e non c’è la proprietà privata. Ognuno va dove gli pare; se mancano case si fanno (tutti si divertono moltissimo a fare le case), si vive in famiglia, tra amici, in coppia, con sconosciuti… Se serve qualcosa si va in meravigliose botteghe fornite di oggetti belli e utili, che dei bambini che giocano a fare i commessi regalano a chi li apprezza.

La concezione di Morris dell’infanzia è qualcosa di veramente rivoluzionario, persino per noi oggi. I bambini non lavorano nelle fabbriche, né vanno a scuola. I bambini giocano e giocando imparano. Crescendo in campagna si avvicinano alle stagioni, agli animali, ai cicli della natura; si accampano, completamente autonomi, nuotano, cucinano, costruiscono tetti; in città tengono le botteghe, imparando così a conoscere l’artigianato, e badano ai cavalli (perché nella Londra del ventunesimo secolo si gira a cavallo). I bambini apprendono a leggere da soli, perché ci sono libri in giro, ma questa strana società ritiene che non sia bene che i bambini passino troppo tempo sui libri; per quelli c’è tempo.

Morris, un uomo di straordinaria cultura e al tempo stesso di straordinaria manualità, ce l’aveva a morte con l’idea, comune al suo tempo, che il lavoro della mente fosse da considerare superiore al lavoro del corpo, quando tra l’altro il secondo comprende il primo ma non viceversa.

La severità, il conformismo, il classismo, l’addestramento alla prevaricazione sociale ed economica che Morris critica nel suo tempo si ritrovano anche nelle scuole che lui ha conosciuto e frequentato, le ‘fabbriche di ragazzi’, che anziché ‘insegnare ai figli dei poveri a sapere qualcosa, insegnano ai figli dei ricchi a non sapere niente’.

Attraverso il vecchio Hammond, una delle principali voci del libro, Morris formula la sua critica alla scuola, che ignora le differenze tra bambini, costringendoli nello stesso percorso alla stessa età nonostante le naturali differenze di inclinazione e crescita, e si prodiga a imporre a menti disinteressate nozioni che, infatti, non ricorderanno nemmeno. La scuola nasce dalla povertà: talmente poco è il tempo a disposizione, talmente presto il bambino sarebbe stato costretto a lavorare e più nient’altro, che con la forza gli si inculcava qualche nozione che altrimenti poi non avrebbe più avuto tempo di imparare. Ma ora, in questo mondo nuovo, c’è tempo per continuare imparare tutta la vita, e allora i bambini possono cominciare dalle cose che sono attorno a loro, che esercitano sia la mente che il corpo, che li incuriosiscono naturalmente.

Se è radicale essere per l’abolizione della scuola oggi, figurarsi nell’Ottocento.

A me sembra di assistere, nel paese in cui vivo, a una versione un po’ meno idilliaca dell’utopia di Morris. I ragazzi vanno a scuola perché sono costretti, ma quelli che non hanno voglia di studiare non imparano per niente le materie a cui non sono interessati, e in un modo o nell’altro tirano avanti lo stesso, probabilmente grazie a una certa indulgenza del sistema, che altrimenti non potrebbe fare che bocciare in eterno. Eppure tutti sembrano imparare con entusiasmo, dentro o fuori dalla scuola, quello che gli interessa. Ho osservato che i bambini e gli adolescenti qui sanno fare moltissime cose, più dei loro coetani cittadini: sanno tagliare la legna e usare le motoseghe, falciare, mungere e fare il formaggio, coltivare e raccogliere, tenere gli animali, lavorare come muratori, costruire strutture di legno e dighe di pietra alte più di loro. Non tutti sanno fare tutte queste cose, ovviamente, ma ognuno segue le proprie inclinazioni e nel complesso la gioventù possiede già in qualche forma tutte le conoscenze necessarie. Molti frequentano scuole professionali, chi di cucina, chi di agraria, meccanica o muratura, e, anche se io ogni tanto guadagno qualcosa offrendo ripetizioni di inglese, confesso pubblicamente che preferirei che l’inglese, la matematica o persino il greco e il latino non fossero insegnati a chi non li vuole imparare, e che quindi nessuno avesse bisogno di ripetizioni, finalizzate in fondo solo al voto, perché sapere che soldi pubblici, tempo e spazi preziosi vengono sperperati a inculcare nozioni troppo basilari per essere utili a chi quelle nozioni comunque non le vuole e quindi non può assorbirle mi sembra del tutto assurdo e mi fa anzi proprio arrabbiare. Tra l’altro, molti adulti scoprono invece a un certo punto delle loro vite di essere interessati a degli argomenti che non hanno affrontato prima, e allora cercano qualcuno che glieli insegni come si deve, e allora sì che li imparano. Come se non bastasse, la scuola qui ha una funzione snazionalizzante, dato che le lezioni si svolgono in italiano, per cui si crea un conflitto tra un sapere utile, tramandato nella lingua del posto, e un sapere preconfezionato tramandato nella lingua coloniale, cioè l’italiano, che tra l’altro probabilmente i ragazzi imparerebbero ugualmente dai media o dai visitatori.

Un’amica, che forse sta leggendo queste parole, e che insegna, mi ha raccontato casi in cui adolescenti problematici e in crisi sono stati aiutati a fare qualcosa della propria vita grazie all’impegno di un insegnante. Lì per lì, ho preso le storie così come mi sono state presentate, ma poi ci ho riflettuto e mi sono chiesta: non è che forse molti adolescenti diventano disadattati perché sono costretti a passare la quasi totalità delle loro vite a imparare cose che non gli interessano in un modo che a loro non è congeniale? E per quanto riguarda l’idea che la scuola offra apertura mentale, cognizioni di base, o salvi dal bigottismo delle famiglie, devo ancora vederne le prove. C’è gente ignorante, bigotta e chiusa che ha fatto tutte le scuole dell’obbligo, e viceversa. Io stessa, che sono abbastanza contenta della mia attività intellettuale, mi ritrovo a non ricordarmi quasi nulla di quello che mi fu insegnato nel liceo classico (in cui prendevo buoni voti), mentre nella mia testa circolano continuamente idee apprese prima, o dopo, o durante ma seguendo i miei naturali interessi, oppure fuori dall’Italia, in scuole più libere con possibilità di scegliere i corsi e di svolgere attività pratiche. Quello che faccio tutto il giorno, dalla mattina quando mi alzo al momento in cui mi addormento, l’ho imparato da sola. Il resto mi è scivolato via, e ogni tanto, per un attimo, vorrei non averlo mai fatto.

Morris non è l’unico abolizionista scolastico che ho incontrato nelle mie letture: Ivan Illich mi aveva già quasi convinta, e parlando con una madre che ha scelto di educare i figli a casa ho scoperto che questi ragazzi riescono a socializzare e a imparare anche senza la scuola formale. Certo, non tutte le famiglie sono adatte per un’istruzione domestica, ma è qui che entra in gioco, ancora una volta, il ruolo fondamentale della comunità. Naturale curiosità e vita in comune possono davvero, io ci credo, sostituire la scuola, ma perché questo accada la società deve essere già egualitaria, già libera, altrimenti si rischia semplicemente che i bambini siano tenuti a casa e sfruttati, e le bambine mandate a sposarsi presto, senza avere la possibilità di decidere cosa fare delle proprie vite. È curioso pensare che la battaglia di Malala Yousafzai perché le bambine di tutto il mondo possano andare a scuola sia così in contrasto con l’abolizionismo scolastico libertario, eppure al tempo stesso, forse, così compatibile. L’oppressione familiare e tribale è stata sostituita dall’oppressione scolastica statale, ma non basta: la scuola oggi, e anche qui Morris ha ragione, non forma essere pensanti o persone libere ma ingranaggi per il mercato. Non conoscenza, ma commercio, già nell’Ottocento. Il risultato è quello che vediamo: laureati iperspecializzati, incapaci di pensare con la propria testa, se non per inclinazione individuale, spesso disinteressati alle stesse materie che hanno studiato, e frustrati perché non trovano il lavoro promesso; idee assurde, come quelle di gran parte dell’economia, spacciate come verità da illustri intellettuali, trentenni ancora sui banchi mentre altri lavorano per loro e adolescenti che imparano poco e male solo perché sono constretti.

Mi sa che sto diventando un’abolizionista scolastica.

(continua)


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