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nessun dove – quarta parte

Creato il 01 settembre 2015 da Gaia

Una sera di quelle in cui stavo leggendo News from nowhere, con la sua quasi ossessiva ricorrenza del tema della bellezza – da quella naturale a quella artistica, a quella architettonica, a quella degli stessi personaggi – ho deciso di portare il libro con me e di leggere fuori finché c’era luce. Ho passeggiato fino quasi a uscire dal paese (si sta poco). Sono salita sul tetto piatto di una costruzione che poteva essere un vecchio deposito di attrezzi, e mi sono messa a guardare le montagne. La bellezza delle montagne è una delle più naturali che ci siano: o c’è o non c’è. Non la si crea. La si può, però, distruggere. L’umanità è capace anche di questo. Guardate nelle Alpi Apuane o in West Virginia.

Le nuvole grigie passavano lentamente davanti ai boschi verdi. Anche il grigio è bello in montagna. Lo spettacolo non mi stancava mai.

Quando ha iniziato a fare buio mi sono alzata, sono scesa e ho camminato fino a casa seguendo un’altra strada. I fagioli sono alti in questi giorni, gli orti verdi e rigogliosi. Sono passata davanti a dei cortili da cui provenivano delle voci. Era tutto molto bello. In quel momento mi sono resa conto di quanto infinitamente diverso sarebbe stato se mi fossi trovata in un altro posto, ad esempio in una delle tante periferie italiane, sotto le nuove palazzine, tra un parcheggio e l’altro, davanti a una pompa di benzina o a un centro commerciale. Tra questa passeggiata e una brutta ci sarebbe stata la stessa differenza che c’è tra essere felice e soffrire – tra essere ammalato ed essere sano, tra essere libero ed essere prigioniero, tra mangiare ed avere fame. Eppure mentre queste ultime cose sono ovvie, la necessità della bellezza non lo è. Perché è così difficile convincere gli esseri umani che non abbiamo bisogno di una cosa sola per vivere, che accanto alla libertà, alla dignità, al benessere, alla salute, deve esserci la bellezza? E no, la bellezza non è soggettiva, per lo meno non lo è più della libertà e di tutti questi altri valori. Ci sono dei limiti entro in quali si contiene la bellezza per tutte le persone. Ad alcuni non piace la montagna, e va bene, ma nessuno può dire che il Cittàfiera o via Tavagnacco siano più belli delle valli della Carnia. Non tutti vanno in vacanza in Sardegna, ma nessuno può dire che le sue coste non siano più belle dell’attuale pianura padana (la pianura padana potrebbe essere bella, ma si è deciso altrimenti).

Gli esteti hanno lo stesso valore per la società di tutti gli altri tipi di idealisti. Ci sono quelli che si battono per la libertà, quelli che si battono per l’uguaglianza, e quelli che si battono per la bellezza. Spesso, una lotta non è completa senza tutte queste tre cose. Tutte e tre. Morris lo sapeva.

Perché nessuno lo capisce? La bellezza non è un lusso, una cosa in più da aggiungere quando si ha ottenuto tutto il resto. Io lo so, perché non ho tante delle cose che la maggior parte della gente considera indispensabili per vivere decentemente e si arrabbia se non ha. Dal punto di vista degli indicatori di benessere, quali la possibilità di spesa o di andare in vacanza, la mia vita è molto grama. Però ho la bellezza. Ho la possibilità di creare oggetti che per me sono belli, e di scrivere parole in combinazioni che sono belle. E poi, io la mattina esco di casa e vedo le Alpi. Questo per me vale più di tutte le comodità. Non lo scambierei con un lavoro ben pagato, né con l’automobile, né con le ferie, né con tutte le conquiste materiali delle classi lavoratrici che alla fine hanno creato soprattutto un immenso deserto e non hanno portato la felicità né nei paesi capitalisti né in quelli comunisti ed ex comunisti, ma solo squallore, vincoli e ulteriori aspettative.

William Morris questo l’aveva capito. Aveva capito che il Comunismo di stato avrebbe sbagliato prima ancora che il Comunismo di stato ci fosse. Non solo avrebbe sbagliato perché sarebbe stato una limitazione della libertà personale, perché avrebbe incarcerato e torturato, perché avrebbe cercato di produrre di più e non meglio, perché sarebbe stato imperialista, espansionista, globale, ma anche perché sarebbe stato brutto. News from nowhere ci dice che non ce ne facciamo niente di un Comunismo brutto.

Il Comunismo di William Morris mette la natura al centro. Una delle eroine della sua fantasia, Ellen, bella, selvaggia, intraprendente, misteriosa e forte, fisicamente forte, entra in una casa di campagna, poggia la sua mano sul muro ed esclama: “Oh! Come amo la terra, e le stagioni, e il tempo, e tutte le cose che da esso emanano, e tutto quello che da essa cresce!”

Tutti, dai bambini agli adulti, prestano attenzione ai piccoli e grandi cambiamenti attorno a sé – gli uccelli, il raccolto, il tempo, le case, e ne parlano non tanto per dire qualcosa, ma perché gliene importa davvero. L’uomo ha smesso di considerarsi padrone della natura, separato dalla natura – adesso è parte di essa e partecipa ai suoi cambiamenti e ai suoi cicli. Dick, un altro personaggio che fa da guida a Guest, spiega che per lui le stagioni non sono uno spettacolo esteriore, ma un cambiamento che lo riguarda. Ne è parte, sale e scende con esse. Esulta nell’estate, si immalinconisce con l’autunno, trema nell’inverno… è rientrato nel ciclo naturale delle stagioni e della vita.

La popolazione è tornata alle campagne, popolose ma non sovrappopolate, e le lavora con gioia. La stragrande maggioranza dei lavori, e la totalità di quelli descritti, viene svolta a mano. Il progresso tecnologico è finito. È il momento di scegliere: si tiene quello che è utile, facile da riparare, e bello, e si scarta tutto il resto. Non c’è bisogno di nuove invenzioni. Vi immaginate? Quante energie, quanta materia, quanta bellezza sacrifichiamo oggi per avanzamenti tecnologici che peggiorano la vita anziché migliorarla?

(Io ancora non riesco a capire perché la gente spenda soldi per un cellulare che funziona peggio di quelli precedenti, si scarica prima, si rompe più facilmente, e ha neanche la sveglia. Giuro che non capisco)

Specifico subito che io non sono contraria alla tecnologia, se non altro perché come essere umano non potrei sopravvivere, per non parlare di fare le cose che mi piacciono, senza una qualche forma di tecnologia. Siccome ogni opera umana è potenzialmente migliorabile, ne consegue che io non sono a prescindere contraria al cosiddetto progresso tecnologico, se lo definiamo come la possibilità di sostituire una certa tecnologia con un’altra scoperta più recentemente, ma non lo considero un assoluto e soprattutto non vedo perché debba avanzare così velocemente che adottiamo una nuova invenzione prima ancora di capire se quella precedente andava bene o no.

Alle volte, i libri (o i film) sono così ben eseguiti che esercitano il loro fascino sul lettore anche se il mondo che descrivono è oggettivamente un posto in cui nessuno si troverebbe davvero bene a vivere (il fantasy è un esempio, ma anche molte delle opere che hanno a che fare con qualche forma di degrado urbano o malavita). Nel caso di News from nowhere è il contrario, almeno per me: un libro in cui niente va storto e tutti sono belli, felici, gentili difficilmente è un capolavoro letterario. Eppure – chi non vorrebbe vivere in un posto così ameno? Tra l’altro, se c’è una campagna che può ispirare un senso di meraviglia, di romantica bellezza, di fascino inesauribile, questa è la campagna inglese – e lo dico pur avendola vista ridotta in uno stato ben peggiore di quello che Morris immaginava per il futuro. Non so come, nella libreria che frequento era finito un libro di foto della vecchia Inghilterra, così com’era decenni e forse anche un secolo fa, e io l’ho portato a casa e guardato a lungo. Ci sono dei prati, delle case, delle strade e dei paesi così belli che fa quasi male vederli, perché l’Inghilterra li ha persi, e perché l’Italia non li ha e chissà se mai vorrà e potrà averli.

Al tempo stesso, c’è nella narrazione di William Morris una certa aridità derivante da un estetismo quasi esasperato, dal generale buonumore dei rapporti tra le persone e da una collettiva allegria che dopo un po’ risulta quasi irritante. Basta prendervi per mano e far notare che siete tutti vestiti di seta!, viene da gridare dopo un po’. Basta complimenti! Per fortuna ogni tanto si arrabbiano anche – ma è solo quando qualcuno si azzarda a negare che vivano nel mondo migliore possibile.

Infatti, il momento migliore dal punto di vista narrativo è la fine. SPOILER ;)

Si capisce sin da subito che il signor William Guest in qualche modo dovrà per forza tornare nell’Ottocento, nel capitalismo, nel bruttume, eccetera. Siamo alle ultime pagine, e lui è ancora lì. Viene da chiedersi quale escamotage verrà adottato – e, forse quando nemmeno ce lo si aspetta più, succede: William Guest sta tornando a casa. E a quel punto, inaspettatamente, io ho sentito come mio il suo sgomento, il suo dolore a dover lasciare questo mondo, ma anche l’entusiasmo alla prospettiva di essere parte della lotta per costruirlo. La sensazione, credo, di chiunque sa di lottare per un mondo migliore che probabilmente o sicuramente non vedrà, come tanti partigiani, ad esempio.

Questo momento è fondamentale nel libro, sia perché è una chiamata all’azione, sia perché è più reale di tutto il resto che ci viene mostrato – l’idillio non è la normalità della nostra condizione, mentre la delusione, l’abbandono, la speranza, l’entusiasmo li conosciamo bene.

William Morris attribuisce ai suoi personaggi un’acuta consapevolezza del valore della loro società, ma può davvero essere così? O non sarebbe più credibile che gli abitanti del futuro fossero semplicemente abituati a quello che hanno, e stessero a preoccuparsi piuttosto di quel poco che non hanno, come fa la maggior parte della gente? La pace, la prosperità e la libertà, una volta conquistate, rendono chi le eredita persone migliori o peggiori di chi ha dovuto lottare per averle?

Il problema, comunque, forse non si pone più. C’è così tanto ancora da fare! Come William Guest, mi sento da un lato esclusa dalla piena realizzazione di un mondo migliore, forse per sempre, dall’altro motivata dall’idea che sia possibile – l’irrealtà del sogno del protagonista, l’inquietudine del suo risveglio indica proprio questo, quell’essere in mezzo, straniero nel mondo che si vuole costruire, che pure si immagina così vividamente; straniero nel mondo che si vuole cambiare, perché lo si rifiuta. È una condizione dolorosa e vagamente triste, ma necessaria, altrimenti non sarebbe possibile mai nessun miglioramento.

A questo punto passiamo alla parte finale del mio riassunto e commento. Siamo tornati alla realtà, e in questa realtà bisogna capire quanto valga e quanto sia praticabile l’utopia che vi ho presentato. Prendiamo due esperienze: la mia, e quella di William Morris estrapolata dalle mie letture e soprattutto dalla biografia di Fiona MacCarthy, che è uno dei lavori più recenti e completi su di lui.

In teoria, io sarei anarchica, ma le mie esperienze di autogestione di sono spesso rivelate assai frustranti – è difficile mettere d’accordo un condominio, o un comitato, e non sempre la decisione presa si rivela la migliore. Figurarsi prendere una decisione su qualcosa che riguarda migliaia di persone, ognuna delle quali potrebbe volersi esprimere. Nonostante questo, io sono generalmente d’accordo, di nuovo sulla base della mia esperienza, che comunque la partecipazione è migliore della delega, anche se oltre un certo ordine di grandezza o di complessità la delega si rende necessaria – ma dev’essere una delega trasparente e revocabile, non quegli assegni in bianco che rendono una grande opera impossibile da fermare prima ancora che sia cominciata, o che vincolano un’intera collettività alle decisioni di una parte di un partito scelto da una parte dell’elettorato.

Inoltre, e questo è un punto fondamentale, ogni utopia presuppone un uomo nuovo: prendere le persone esattamente come sono adesso, stressate, frustrate, consumiste, con valori tutti sbagliati, e calarle in un altro contesto che richiede valori diversi, senza tener conto del fatto che dovrebbero essere persone diverse, non ha nessun senso. Che i valori delle persone e i loro comportamenti possano cambiare mi sembra abbastanza evidente: come e quanto bisogna ancora capirlo.

Qualcuno ha provato a mettere in pratica le idee di William Morris, e sarebbe interessante potervene parlare, ma non so molto di come questi esperimenti siano andati in pratica, e quindi se vorrete approfondirete voi. Io mi sono avvicinata a lui perché naturalmente la mia vita mi stava portando in una direzione che si somigliava a quella da lui stesso indicata. Una parte di noi, in realtà, si somiglia.

William Morris era figlio di uno speculatore finanziario, e buona parte del suo reddito arrivava da azioni in una miniera – il genere di cose contro cui lui inveiva, e qui arriviamo già alla prima contraddizione. Io non sono così ricca, ma sicuramente sono nata in una famiglia benestante e ho provato, così come lui, sin da piccola, il disagio acuto della consapevolezza del mio privilegio. Sapere di avere più degli altri senza averlo meritato, per puro caso, accorgersi che il privilegio può durare tutta una vita, e crescere conoscendo il lato umano della ricchezza – l’arroganza, l’avidità, l’egoismo, la pigrizia dei ricchi, conoscere questi tratti inevitabili non in astratto ma perché appartengono alle persone più vicine a noi, quelle a cui vogliamo più bene o con cui entriamo più in contatto – questa fu l’esperienza sia mia che sua. Il borghese che si ribella alla borghesia la odia totalmente, la vuole eliminare del tutto perché è l’unico modo per non doverci più avere a che fare. Non può aspirare ad arricchirsi, perché conosce la miseria dei ricchi, né può augurarlo agli altri, per lo stesso motivo. Per redimere la propria vergogna e la sofferenza di cui è testimone non può che sperare che se ne secchi la fonte.

Al tempo stesso, non si può cancellare quello che si è. William Morris era, e qui veniamo a uno dei lati più interessanti della sua vita, l’incarnazione dei principali valori borghesi. Lavorò, dicevano i suoi contemporanei, più di quanto dieci uomini potessero fare in tutta una vita; scrisse best-seller, aprì un’attività di successo, mantenne una moglie e due figlie, viaggiò, visse in belle case e impiegò, com’era quasi inevitabile al suo tempo, la servitù. Ed era rispettabile agli occhi degli altri nobili e borghesi: la società che lui criticava non smise mai di considerarlo uno dei suoi esponenti migliori. Gli vennero offerte posizioni prestigiose, fu ascoltato seppur con considerevole imbarazzo nelle più importanti università e persino quando, dopo anni di campagne, volantinaggi, manifestazioni, proseliti in ogni dove, fu finalmente arrestato per aver tenuto un discorso in pubblico e “impedito il passaggio” nella strada, si accorse con imbarazzo di ricevere un trattamento preferenziale. Se la cavò con una piccola multa e l’ossequiosa ammonizione del giudice: un “gentiluomo” come lui sicuramente si sarebbe reso conto che questi incontri pubblici causavano un certo fastidio. I suoi compagni di lotta, meno famosi e provenienti dalle classi più basse, subivano con ben altra intensità l’accanimento della polizia e le severe pene di quel sistema giudiziario che lo stesso Morris descriveva come semplicemente dedito a difendere i privilegi e i privilegiati.

Morris spese molto del suo denaro per la causa, in particolare per la stampa dei giornali rivoluzionari. Quello che però non fece mai fu mettere in pratica le sue idee radicali sul lavoro e sulla società senza classi. Pagava i suoi dipendenti un po’ di più di quello che avrebbero preso altrove, cercava fornire un ambiente piacevole di lavoro e di lasciare che lo svolgessero a modo loro senza ansie e fretta; ma siamo comunque anni luce dalle sue stesse utopie. I suoi lavoratori non lavoravano per sé, né per i loro amici, ma per gli speculatori, gli aristocratici e i padroni. Morris prese in considerazione l’idea di permettere una gestione di tipo cooperativo dell’azienda, ma lasciò perdere perché gli fu detto che sarebbe considerevolmente aumentata la burocrazia. Le sue fabbriche impiegavano minori, fatto normale all’epoca; non erano particolarmente insalubri ma comunque è probabile che causarono qualche malattia, ed erano sotto il suo costante controllo. Nei suoi stessi rapporti con i lavoratori era cordiale e rispettoso, ma distante, non come sarebbe un rivoluzionario ma come era un buon padrone.

Perchè?

Glielo chiesero anche molti suoi contemporanei. La più interessante e più credibile delle risposte che fornì fu: finché siamo in questo tipo di economia e in questo tipo di società, io non posso fare più di così. Se applicassi tutte le mie idee non riuscirei a vendere i miei prodotti (già cari perché artigianali e di alta qualità), finirei fuori mercato, e il mio posto verrebbe preso da capitalisti ben peggiori di me. Se abituassi i lavoratori a condizioni troppo distanti da quelle normali, nessun altro li assumerebbe più.

Dato che Morris spese molti dei suoi soldi per la causa o per aiutare poveri vari, e rischiò fisicamente pur di partecipare alle proteste (era presente durante il massacro di Bloody Sunday), non ci sono dubbi sulla sua dedizione. Se sia vero che è meglio fare qualcosa e intanto predicare la rivoluzione, piuttosto che fare tutto e soccombere, lo lascio decidere a voi. Nella sua ricostruzione di come l’Inghilterra del futuro sarebbe arrivata al Comunismo, c’è un passaggio cruciale in cui si spiega che, quando arrivò il momento di lottare contro le classi dominanti che cercavano di soffocare la rivoluzione, i lavoratori erano già pronti perché conoscevano già le idee del Comunismo. Evidentemente, Morris riteneva più importante contribuire a prepararli che arrischiarsi a mettere in pratica troppo presto tutte le sue idee.

Un altra motivazione che William Morris forniva per l’incoerenza tra idee e pratica era che doveva mantenere la sua famiglia. Come potrete immaginare, non mi convince: il ‘tengo famiglia’ è la scusa universale della codardia. Al tempo stesso, la moglie di Morris era afflitta da una malattia misteriosa, e la figlia Jenny era epilettica. A quei tempi l’epilessia era molto più grave di quanto lo sia ora, e mi è parso di capire che tutte le cure e l’assistenza, piuttosto costosa, fossero a carico della famiglia.

Un po’ come Tolstoj, Morris visse sulla sua pelle la contraddizione tra un idealismo estremo e un vero odio per il privilegio, e le esigenze delle persone più vicine – moglie, figli, amici, conoscenti, che non gli chiedevano che di comportarsi come ci si aspettava da un membro della sua classe, e di non metterli in imbarazzo. Quello che però Morris offrì a sua moglie e alle sue figlie non fu quello che un uomo del suo tempo e della sua classe avrebbe offerto, ma qualcosa di ulteriore – un rispetto e una libertà che non sono la norma nemmeno al giorno d’oggi.

Non c’è dubbio che Morris credesse veramente non solo nella parità tra uomo e donna e nella libertà sessuale e sentimentale. Permise alla moglie di tradirlo apertamente con almeno due uomini, il primo dei quali era addirittura un suo amico, il pittore preraffaelita Dante Gabriel Rossetti; combattè a fianco della figlia May tutte le sue battaglie politiche, ed ebbe come principali confidenti delle donne, tra cui l’altra figlia Jenny, la cui gravissima invalidità cercava di alleviare rendendola partecipe di tutte le sue imprese.

La letteratura occidentale ha una lunga tradizione di utopie; negli ultimi anni dell’Ottocento ad andare per la maggiore era quella di Edward Bellamy, odiosa per Morris, la quale immaginava una società iper-regolamentata e controllata da macchine, in cui ciascuno ha un suo posto predefinito e viene continuamente valutato e stimolato alla competizione (mi baso su un riassunto; non l’ho letto). Ora, una visione del genere non sarebbe considerata un’utopia ma una distopia. Per certi aspetti, sembra somigliare ai lati peggiori della nostra società attuale. Ma che dire del suo opposto, la vita della libertà, della spontaneità e della concordia?

Ancora non lo sappiamo.

Ultimamente, per lo meno negli ambienti che frequento virtualmente, l’Arcidruido in particolare ma anche il sito di Ugo Bardi, trovo molte teorie e molte analisi sull’ascesa e il declino di ogni società – e se queste teorie sono vere e predicono correttamente quello che succederà alla nostra, forse non abbiamo così tanto margine di manovra come crediamo. Siamo nel declino e declineremo e quello che emergerà somiglierà a quello che emerge di solito dopo che una società è declinata o crollata.

Se la storia è ciclica anziché lineare (definizioni già di per sé problematiche), non c’è nessuna utopia possibile: ogni stato non dev’essere considerato che momentaneo. Non arriveremo mai al paradiso e non rimarremo mai molto a lungo nello stesso sistema.

Io sono piuttosto ignorante su questo specifico argomento, e può darsi che sia un bene, perché forse il mio contributo non è provare a predire quello che succederà (non ne sono capace e lo lascio ad altri) ma provare a creare qualcosa che funzioni se non altro adesso e poi far sapere agli altri se è possibile e com’è, e se funziona una volta in un luogo forse da qualche parte funzionerà di nuovo. E allora in questo caso un’utopia può essere utile – a patto di non prenderla come una religione, ma solo come uno spunto.

Questo spunto specifico è sostanzialmente, togliendo le droghe e mettendo la musica al posto dell’architettura, un sogno hippy. Abiti fluenti, ritmi rilassati, libertà sessuale, fiori e campagna. Vi piace?

Se non altro, è notevole che le proposte di William Morris – antecedenti, vi ricordo, a eventi non insignificanti quali due guerre mondiali, crisi economiche ricorrenti, e il trionfo del socialismo reale nel paese più grande al mondo seguito da un crollo di questo sistema quasi ovunque – siano nate come idee durante l’apoteosi di un sistema e siano tornate come pratica all’inizio del suo declino.

Una pratica che si basa su un’idea di natura umana troppo ottimistica – oppure, da socialista quale Morris era, su un’idea della natura umana come plasmata quasi esclusivamente dalle circostanze – si scontra con l’impossibilità, nonostante gli studi psicologici, di stabilire quale sia veramente questa natura. Non possiamo che prendere atto della sua visione e della difficoltà di refutarla o confermarla.

Ma le idee di fondo, la direzione che indica, sono per quanto mi riguarda in grandissima parte condivisibili.

L’idea che il lavoro possa essere piacevole e debba esserlo per tutti, e che ognuno possa scegliere cosa fare senza costrizione; che non si lavora per denaro ma per contribuire al patrimonio comune e per averne soddisfazione; che il lavoro manuale non è inferiore a quello intellettuale, e che nessun uomo deve poter sfruttare i suoi fratelli; l’idea che l’amore non si impone per legge né con la violenza, che la curiosità è naturale e non ha bisogno di scuole, che i bambini meritano la nostra fiducia e non devono essere rinchiusi nelle scuole, che la bellezza migliora la vita, che le città devono somigliare a dei giardini, che il dissenso non è una minaccia, che le prigioni fanno più danni che altro, e che ogni uomo e ogni donna devono essere liberi di disporre sia del proprio corpo che della propria immaginazione…

Io sono d’accordo. Non perché lo dice lui, ma perché ho visto che è vero.


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