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nessun dove – terza parte

Creato il 28 agosto 2015 da Gaia

Non credevo che il riassunto sarebbe stato così lungo; mi dispiace per quelli che si sono stufati, ma credo che ci saranno ancora un paio di post. Il senso di quello che sto facendo forse è sfuggito: non sto dicendo che William Morris avesse scoperto il modo di risolvere tutti i problemi dell’umanità, e che quindi io voglio educarvi a questo sistema perfetto che lui aveva ideato. Semplicemente, c’era un uomo molto idealista e perspicace che nell’Ottocento aveva visto l’orrore della società industriale e capitalista, ne aveva capito le radici e si era immaginato un mondo basato su principi diversi, declinandolo secondo il suo gusto personale. Siccome a me piace la sua figura, mi piace questo mondo alternativo che descrive (anche se non è la mia utopia), so che ebbe una grande influenza sul socialismo britannico, e mi offre un’occasione per aggiungere alcuni commenti a temi che mi interessano, sto riassumendo il libro per condividerlo con voi. Non sto riuscendo a rendere il tutto bene come vorrei, e mi dispiace, ma magari qualcuno che legge deciderà di approfondire per conto suo un giorno, e così rimedierà alle mie inevitabili lacune.

Le proposte di William Morris sono piuttosto insolite e non rientrano in categorie predefinite, e soprattutto sono presentate in modo più pratico che teorico (a differenza di tanti testi marxisti). Potrebbero aiutare a immaginarsi un mondo diverso con meno preconcetti. Nessuno può dire se le sue idee funzionerebbero o meno, se non su piccola scala. Io ne riconosco qualcuna nella vita attorno a me e soprattutto in quella che sto cercando di vivere. Quello che più mi interessa, però, è la possibilità che offrono all’immaginazione. Non credo che ci sia stato un autore di utopie che abbia veramente creduto che il mondo sarebbe diventato o sia mai stato esattamente come lui l’ha descritto. Ma già indicare una direzione apre la mente a nuove possibilità, e io penso che di questo abbiamo bisogno.

La Londra post-rivoluzionaria di William Morris non ha un governo. Nella vecchia sede del parlamento c’è un Mercato del Letame. Per esperienza personale, Morris aveva smesso di credere in un cambiamento che passasse per la politica parlamentare e partitica, che lui vedeva come un mero gioco delle parti – chissà cos’avrebbe pensato del fatto che la Rivoluzione risparmiò proprio la Gran Bretagna, che i lavoratori ottennero delle conquiste democraticamente (sebbene dopo due guerre mondiali), e che importanti politici laburisti, come Clement Attlee o addirittura Tony Blair, si professarono suoi ammiratori.

(Mi sembra comunque abbastanza chiaro che avrebbe inveito contro Tony Blair con tutte le sue forze)

A un certo punto del libro il narratore, William Guest, interroga il vecchio Hammond, una delle voci principali che spiegano questa nuova società, su quali siano i rapporti sui sessi. La risposta è: non ci illudiamo di aver del tutto risolto il problema.

Ma, e se no che utopia sarebbe, ora c’è finalmente libertà sentimentale e sessuale. Le donne sono libere di entrare e uscire da un’unione, senza conseguenze se non l’eventuale sofferenza dell’abbandonato. Di nuovo, vi ricordo che il confronto offerto è con l’Inghilterra vittoriana e patriarcale, famosa per la combinazione di pudore paranoide e convenzioni borghesi da un lato e prostituzione e peversioni dall’altro

Curiosamente, le donne del mondo utopico di News from nowhere, socialmente, politicamente ed economicamente pari agli uomini, che fanno tutto con loro, continuano a svolgere lavori domestici perché a loro piace (?). Forse Morris, che crebbe passando molto del suo tempo nei giardini e nelle cucine, che arredava case e che amava cucinare, lo intendeva come un complimento. A parte questo, però, la parità è totale. Ognuno svolge il lavoro che gli piace; ci sono donne falciatrici (ovviamente), donne scultrici, donne che remano, donne che cuciono…

Il matrimonio, essendo una libera unione, non ha nessun vincolo né legale né economico – non esistono tribunali per il divorzio e sostanzialmente non esiste neanche il divorzio. Non è meraviglioso? Se sue persone che avevano intenzione di stare insieme cambiano idea, pazienza: ma almeno non saranno “così folli da aggiungere abbruttimento al dolore, lasciandosi trascinare in squallide liti sul mantenimento e lo status, e il potere di tiranneggiare sui bambini che sono nati dall’amore o dal desiderio”.

Per molte persone il divorzio è una rovina non solo e non tanto per l’aspetto emotivo, ma perché le costringe a sanguinose battaglie legali e a versamenti economici all’ex-coniuge che sinceramente, in una società in cui le donne lavorano (quasi) tanto quanto gli uomini, non hanno nessun motivo di essere e sono solo un altro meccanismo di preservazione dei privilegi. Inoltre, ai figli non fa bene vedere i genitori scannarsi e vendicarsi l’uno contro l’altro, usando la legge e la proprietà come arma, per far pagare a qualcuno che una volta amavano una qualche forma di tradimento. Sinceramente mi sono sempre chiesta perché debba andare a finire così: al di là del dovere di entrambi di provvedere ai figli (ma i bambini non sono mai soli in una società comunitaria), e della divisione della proprietà (ma Morris non prevede proprietà in ogni caso), cosa ci sarà mai su cui discutere? Il divorzio, a pensarci bene, è un’istituzione tanto perversa quanto lo è un pezzo di carta che obbliga due persone a stare insieme per sempre e punisce chi non lo fa.

Il mito di una società sessualmente libera in cui le donne non sono considerate proprietà degli uomini e i matrimoni non sono vincolanti sembra essere un tema ricorrente nelle utopie occidentali. Il filosofo illuminista Denis Diderot, nel suo Supplement au Voyage de Bougainville, proietta su una società ‘altra’, apparentemente ‘selvaggia’ ma in realtà felice, le sue fantasie di libertà. In questo caso si tratta dei tahitiani – innocenti, semplici dove gli europei sono complicati, giovani mentre gli europei sono vecchi.

Anche presso i tahitiani che Diderot descrive, il matrimonio è un’istituzione libera: si vive insieme finché si sta bene, poi ci si separa senza liti. C’è una notevole libertà sessuale. Come per Morris, la procreazione è una benedizione e non pare esserci la minima preoccupazione per le sue conseguenze, in particolare la sovrappopolazione. Questo come potete immaginare non mi trova d’accordo. Diderot si spinge, forse per provocazione, a consentire persino l’incesto; Morris è molto più sobrio, e mantiene l’idea della monogamia, seppure potenzialmente temporanea.

All’improvviso, quando in News from nowhere emerge la questione della legge e del carcere, si scopre che William Morris era un abolizionista totale. Il carcere non esiste. Non esistono le corti. Non esiste nemmeno un sistema formale di leggi. Esistono solo costumi, usanze e valori condivisi (non sono un antropologo, ma mi pare che ci siano e ci siano state società così; la nostra è l’opposto, evidentemente).

Nell’Ottocento, leggiamo, le corti non facevano altro che difendere i diritti delle classi dominanti contro i poveri e i lavoratori, nonché a portare alla rovina chiunque vi facesse ricorso – persino se avesse vinto la causa.La principale causa dell’esistenza di una classe di criminali era la diseguaglianza. Nella società utopica di News from nowhere le diseguaglianze economiche e la proprietà privata sono state abolite, e le trasgressioni sono quindi diventate rarissime.

Per quanto riguarda i crimini violenti, buona parte di questi era causata dall’idea che le donne fossero di proprietà degli uomini. Eliminata anche questa idea, assieme alla convinzione che a tenere insieme la famiglia debba essere la coercizione anziché l’affetto reciproco, i crimini violenti all’interno delle famiglie sono cessati. Non c’è più competizione tra vicini o membri della società; nessuno cerca di vincere una gara contro gli altri, ma tutti incoraggiano le altre persone semplicemente a realizzarsi pienamente. Non ci sono quindi nemmeno i crimini legati all’invidia e al rancore.

Ma ogni tanto, nonostante tutto questo,vengono ancora commessi degli omicidi. Ed è qui che Morris presenta risposte che mi pare riecchieggino quelle degli abolizionisti più moderni, e che appaiono al tempo stesso ovvie e stupefacenti. Supponiamo, dice, che un uomo venga ucciso. Cosa si deve fare?

Il morto è morto. Non lo si può più riportare in vita. La punizione non può che aggiungere dolore al dolore, infelicità all’infelicità. Ci si aspetta piuttosto che il colpevole espii in qualche modo il danno che ha arrecato alla comunità. Per la paura del raro omicidio, dice il vecchio Hammond portavoce di Morris nel testo, vale la pena commettere legalmente e deliberatamente altri omicidi e violenze (cioè la pena di morte o la privazione della libertà)? C’è un eccezione, e cioè quella in cui il violento sia malato (suppongo di mente) o folle, nel qual caso dev’essere fermato finché la sua malattia o follia non siano curate. In tutti gli altri casi, però, un omicida non può che provare dolore e senso di colpa, e se non li prova, sarà la società a farglieli presente. Questo dovrebbe bastare, perché se oltre a questo si dovesse torturare il colpevole (cioè privarlo della libertà), il suo dolore si trasformerebbe in rabbia, e il desiderio di vendetta prevarrebbe sul senso di colpa. Se un uomo così punito ritenesse di aver pagato tramite la punizione il suo debito con la società, una volta pareggiato il conto riterrebbe di poter andare e peccare di nuovo.

Gli omicidi, quindi, sono rari e non premeditati, salvo casi particolari di follia. I crimini economici non hanno ragione di esistere, perché non ci sono diseguaglianze né invidie, e comunque vivere in una società insicura non conviene a nessuno; “potremmo derubarci l’un l’altro, ma sarebbe più difficile che astenerci dalla lotta e dal furto.” Questo, in realtà, ha senso. Dove vivo, ad esempio, le persone non sono abituate a chiudere a chiave le porte di casa o persino le auto e le biciclette, di giorno per lo meno. Non è certo un paradiso, ma difficilmente qualcuno ruba. Semplicemente, non ne vale la pena. Gli svantaggi del venire scoperti e quindi estromessi dalla comunità, oppure del vivere in un luogo dove tutti devono stare continuamente in guardia, superano i vantaggi che si potrebbero avere da un guadagno momentaneo. Ci sono stati dei furti, qualche mese fa, che sono stati abbastanza uno shock. Tutti pensano che fosse gente da fuori, e non solo per xenofobia. Come sarebbe possibile nascondere la refurtiva in un luogo dove tutti si conoscono e tutti si osservano?

È possibile non rubare se non si sta morendo di fame, ovviamente. Chi non ha alternativa, ruba. Se i crimini economici derivano o da un’estrema avidità o da un’estrema miseria, cercare di costruire una società in cui non ci sono questi estremi è una strategia migliore rispetto al punire chi ruba.

Cerco di non idealizzare. L’espulsione di chi devia non è possibile in un mondo completamente abitato. Se invece la punizione è l’emarginazione, questa può essere ancora peggiore del carcere. Essere isolati in una piccola comunità è un inferno. Essere isolati in una grande non può che portare a volerla colpire di nuovo. D’altronde, il carcere incattivisce almeno altrettanto.

Si tratta di una questione enorme, sulla quale mi definisco ancora indecisa. Ho ascoltato attentamente le tesi degli abolizionisti. Li trovo in buona parte, ma non totalmente, convincenti. Io penso che la società abbia diritto di proteggersi, e in casi estremi (Morris forse li chiamerebbe di malattia o di follia) rinchiudere un individuo pericoloso può essere l’unica forma di protezione possibile. Sicuramente la prevenzione conviene rispetto alla repressione, perché ha ulteriori effetti positivi anziché ulteriori effetti negativi; sicuramente il crimine ha radici culturali ed economiche, dalla microcrminalità alla mafia, dall’evasione alla corruzione, e agire su queste radici da un lato richiede più tempo rispetto al carcere, dall’altro conviene.

L’incarcerazione può svolgere diverse funzioni: di punizione, di deterrente, di prevenzione. La punizione è la meno convincente: si tratta sostanzialmente di vendetta, e da un certo punto di vista mi sembra più problematica l’idea che uno paghi una pena ed esca pulito, quando il suo crimine non si può riparare, piuttosto che non paghi nessuna pena ma debba passare il resto della sua vita con la colpa. Liberare un omicida significa dirgli: ecco, sei a posto adesso. Ma il morto resta morto. Il senso di colpa può essere una punizione peggiore della prigione, perché la prigione compensa in qualche modo astratto il crimine, mentre chi deve fare i conti solo con la propria coscienza non se ne libera mai.

Il deterrente, a quanto ne so, può funzionare. Dipende, però, dal tipo di crimine e dalle sue motivazioni. Se c’è gente che rischia volontariamente la morte e la tortura in guerra, ad esempio, evidentemente ci sono degli stati di necessità o di idealismo in cui nessun tipo di conseguenza negativa può prevenire un’azione.

La prevenzione di ulteriori reati ha senso se ci sono modi per capire se una persona li ripeterà. Questo, naturalmente, è molto difficile.

L’argomentazione più forte contro il carcere, comunque, resta quella culturale. Riflettete un attimo su voi stessi. Presumibilmente non rubate e non uccidete. Perché? Perché avete paura delle conseguenze legali, o perché non volete e non sopportereste di passare il resto della vostra vita sapendovi ladri o assassini?

Mi è capitato due volte di andare a presentare un libro in carcere. Osservando l’ambiente e parlando con i carcerati, ho capito se non altro due cose: che essere privati della libertà è una cosa terribile, e che non tutti reagiscono alla stessa cosa allo stesso modo. Quello che sia i fautori del carcere sia gli abolizionisti non sembrano capire, a quanto ho visto, è che siamo diversi e quello che funziona con uno non funziona necessariamente con un altro. Ci sono persone che pensano di meritarsi una punizione, usano la durata della prigionia per riflettere, e correggono la rotta; altre che considerano il carcere una semplice conseguenza più o meno evitabile di una scelta che farebbero comunque, oppure che imparano nuovi crimini o iniziano a odiare la società che li fa soffrire. Una società burocratizzata e ipernormata come la nostra non può tenere conto fino in fondo della diversità degli individui nell’elargire le punizioni, ma solo della diversità delle circostanze. Il carcere è una risposta standard a situazioni che non possono che essere diverse, e il complicatissimo sistema di attenuanti, aggravanti, gradi di giudizio, sconti e così via, che nasce per rispondere all’unicità di ogni singolo caso, forse non è quello giusto per questo scopo. Quale sia il sistema giusto, io non lo so. Forse il problema è che nessuno sa veramente cosa c’è nella testa di un’altra persona.

Il carcere come istituzione ha molta meno tradizione della schiavitù, che oggi quasi nessuno al mondo più difende. Ogni società ha trovato il proprio modo, più o meno efficace, di definire la devianza e poi di gestirla. Morris propone la sua strategia, veramente anarchica, e quanto più distante si possa immaginare dal socialismo reale con le sue incarcerazioni e ricorrenti purghe di massa.

Il problema che lui non affronta è: ammesso che si riesca a creare una società simile, e io penso che si possa riuscire, che fare quando entrano in grande numero in questa società persone che non condividono i suoi valori? Certo, l’obiettivo sarebbe trasformare il mondo intero in una società egualitaria, ma certi vincoli interpersonali e culturali non possono valere su distanze e per gruppi umani troppo grandi. Morris, da bravo internazionalista socialista e da figlio del suo tempo, vede la dimensione di classe come autentica e quella nazionale come ininfluente: le elite che sfruttano i lavoratori della propria nazione e poi li mandano a scagliarsi contro quelli delle altre. Rimane il problema di cosa fare se una società rimane diseguale e violenta nonostante tutto, e straripa attaccando le altre. Questo problema non viene affrontato in News from nowhere, e quindi non ne parliamo, perché c’è già abbastanza carne al fuoco.

nell’elargire le punizioni, ma solo della diversità delle circostanze. Il carcere è una risposta standard a situazioni che non possono che essere diverse, e il complicatissimo sistema di attenuanti, aggravanti, gradi di giudizio, sconti e così via, che nasce per tenere conto dell’unicità di ogni singolo caso, forse non è quello giusto per questo scopo. Quale sia il sistema giusto, io non lo so.

Il carcere come istituzione ha molta meno tradizione della schiavitù, che oggi quasi nessuno al mondo più difende. Ogni società ha trovato il proprio modo, più o meno efficace, di definire la devianza e poi di gestirla. Morris propone la sua strategia, veramente anarchica, e quanto più distante si possa immaginare dal socialismo reale con le sue incarcerazioni e ricorrenti purghe di massa.

Il problema che lui non affronta è: ammesso che si riesca a creare una società simile, e io penso che si possa riuscire, che fare quando entrano in grande numero in questa società persone che non condividono i suoi valori? Certo, l’obiettivo sarebbe trasformare il mondo intero in una società egualitaria, ma certi vincoli interpersonali e culturali non possono valere su distanze e per gruppi umani troppo grandi. Morris, da bravo internazionalista socialista e da figlio del suo tempo, vede la dimensione di classe come autentica e quella nazionale come ininfluente: le elite che sfruttano i lavoratori della propria nazione e poi li mandano a scagliarsi contro quelli delle altre. Rimane il problema di cosa fare se una società rimane diseguale e violenta nonostante tutto, e straripa attaccando le altre. Questo problema non viene affrontato in News from nowhere, e quindi non ne parliamo, perché c’è già abbastanza carne al fuoco.

rispetto al punire chi ruba.

Cerco di non idealizzare. L’espulsione di chi devia non è possibile in un mondo completamente abitato. Se invece la punizione è l’emarginazione, questa può essere ancora peggiore del carcere. Essere isolati in una piccola comunità è un inferno. Essere isolati in una grande non può che portare a volerla colpire di nuovo. D’altronde, il carcere incattivisce almeno altrettanto.

Si tratta di una questione enorme, sulla quale mi definisco ancora indecisa. Ho ascoltato attentamente gli argomenti degli abolizionisti (mia sorella lo è: la sua tesi di laurea, su questo argomento, è stata premiata anziché come temevo punita dalla commissione, segno se non altro che c’è un certo dibattito piuttosto serio sul tema). Li trovo in buona parte, ma non totalmente, convincenti. Io penso che la società abbia diritto di proteggersi, e in casi estremi (Morris forse li chiamerebbe di malattia o di follia) rinchiudere un individuo pericoloso può essere l’unica forma di protezione possibile. Sicuramente la prevenzione conviene rispetto alla repressione, perché ha ulteriori effetti positivi anziché ulteriori effetti negativi; sicuramente il crimine ha radici culturali ed economiche, dalla microcrminalità alla mafia, dall’evasione alla corruzione, e agire su queste radici da un lato richiede più tempo rispetto alla carcerazione, dall’altro conviene.

L’incarcerazione può svolgere diverse funzioni: di punizione, di deterrente, di prevenzione. La punizione è la meno convincente: si tratta sostanzialmente di vendetta, e da un certo punto di vista mi sembra più problematica l’idea che uno paghi una pena ed esca pulito, quando il suo crimine non si può riparare, piuttosto che non paghi nessuna pena ma debba passare il resto della sua vita con la colpa. Liberare un omicida significa dirgli: ecco, sei a posto adesso. Ma il morto resta morto. Da un certo punto di vista, il senso di colpa può essere una punizione peggiore della prigione, perché la prigione compensa in qualche modo astratto il crimine, mentre chi deve fare i conti solo con la propria coscienza non se ne libera mai.

Il deterrente, a quanto ne so, può funzionare. Dipende, però, dal tipo di crimine e dalle sue motivazioni. Se c’è gente che rischia volontariamente la morte e la tortura in guerra, ad esempio, evidentemente ci sono degli stati di necessità o di idealismo in cui nessun tipo di conseguenza negativa può prevenire un’azione.

La prevenzione di ulteriori reati ha senso se ci sono motivi di credere che una persona li ripeterà. Questo, naturalmente, è molto difficile.

Mi è capitato due volte di andare a presentare un libro in carcere. Osservando l’ambiente e parlando con i carcerati, ho capito se non altro due cose: che essere privati della libertà è una cosa terribile, e che non tutti reagiscono alla stessa cosa allo stesso modo. Quello che sia i fautori dell carcere sia gli abolizionisti non sembrano capire, a quanto ho visto, è che siamo diversi e quello che funziona con uno non funziona necessariamente con un altro. Ci sono persone che pensano di meritarsi una punizione, usano la durata della prigionia per riflettere, e correggono la rotta; altre che considerano il carcere una semplice conseguenza più o meno evitabile di una scelta che farebbero comunque, oppure che imparano nuovi crimini o iniziano a odiare la società che li fa soffrire. Una società burocratizzata e ipernormata come la nostra non può tenere conto fino in fondo della diversità degli individui nell’elargire le punizioni, ma solo della diversità delle circostanze. Il carcere è una risposta standard a situazioni che non possono che essere diverse, e il complicatissimo sistema di attenuanti, aggravanti, gradi di giudizio, sconti e così via, che nasce per tenere conto dell’unicità di ogni singolo caso, forse non è quello giusto per questo scopo. Quale sia il sistema giusto, io non lo so.

Il carcere come istituzione ha molta meno tradizione della schiavitù, che oggi quasi nessuno al mondo più difende. Ogni società ha trovato il proprio modo, più o meno efficace, di definire la devianza e poi di gestirla. Morris propone la sua strategia, veramente anarchica, e quanto più distante si possa immaginare dal socialismo reale con le sue incarcerazioni e ricorrenti purghe di massa.

Il problema che lui non affronta è: ammesso che si riesca a creare una società simile, e io penso che si possa riuscire, che fare quando entrano in grande numero in questa società persone che non condividono i suoi valori? Certo, l’obiettivo sarebbe trasformare il mondo intero in una società egualitaria, ma certi vincoli interpersonali e culturali non possono valere su distanze e per gruppi umani troppo grandi. Morris, da bravo internazionalista socialista e da figlio del suo tempo, vede la dimensione di classe come autentica e quella nazionale come ininfluente: le elite che sfruttano i lavoratori della propria nazione e poi li mandano a scagliarsi contro quelli delle altre. Rimane il problema di cosa fare se una società rimane diseguale e violenta nonostante tutto, e straripa attaccando le altre. Questo problema non viene affrontato in News from nowhere, e quindi non ne parliamo, perché c’è già abbastanza carne al fuoco.


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