Magazine Psicologia

Neurodiversitá conclamata

Da Massimo Silvano Galli @msgdixit
Neurodiversitá conclamataNel nostro ultimo post (“Una persona non paziente”) abbiamo aperto le danze al concetto di "persona" che qualifica il soggetto che si rivolge al centro LogoPaideia, emancipandolo dalla dimensione passiva del paziente, come da quella riduttiva del cliente (a maggior ragione quest’ultima, non ce ne voglia Rogers, in un’epoca in cui l’essere cliente rischia di sostituire, nei complessi meccanismi della socializzazione post-moderna, persino l'essere individuo).
Codesta modificata visione è chiaramente foriera di tutta una serie di trasformazioni del setting terapeutico che, proprio a partire da un’alternativa denominazione, produce spostamenti e riassestamenti, primo fra tutti il paradigma di diagnosi e valutazione.
Avevamo già affrontato nel post “Perché la nostra cura funziona” la particolare diffidenza che il metodo LogoPaideia pone nei confronti della diagnosi, non perché il suo utilizzo non sia utile e, a volte, prezioso, ma perché, pur non censurandone la necessità, è bene porre una serie di attenzioni al significato che tale strumento incorpora.
Perché, dunque, in alcune condizioni la diagnosi può divenire uno strumento inficiante la cura stessa?
Primo, perché non tutte le difficoltà, le patologie, le sindromi sono curabili attraverso protocolli standardizzati, la cui validità, su base statistica, spesso sfugge alla complessità del singolo individuo. La definizione diagnostica, con le conseguenti terapie che dispone, non sempre corrisponde, infatti, alle reali esigenze del soggetto.
Secondo, perché una vastissima quantità di disagi che non trovano una corretta diagnosi o, addirittura, non trovano nemmeno una diagnosi, non possono finire (come ahinoi accade) per esaurire la loro esistenza e le loro energie alla ricerca di una conclamazione che non c’è, ma hanno invece bisogno (e diritto) di trovare un luogo in cui, a prescindere dalla diagnosi o in attesa di essa, si inizi a “fare” in direzione della cura e della conquista del miglior benessere possibile.
(Sono ormai troppi i casi che, nella nostra personale esperienza, abbiamo purtroppo registrato: famiglie male assistite che passano anni e anni della loro vita a rincorrere il miracolo di una diagnosi che non c'è, nella speranza di un protocollo portentoso, sottraendo preziosissimo tempo o, addirittura, senza per nulla occuparsi, della sola cosa che, comunque, diagnosi o non diagnosi, sarebbe da fare: prendersi cura di quel disagio).
Terzo, perché anche quei casi che, invece, hanno la fortuna di avere una diagnosi corretta o di essere almeno diagnosticabili, troppe volte si trovano nella dannata situazione che tale diagnosi non tenga in conto delle sfumature collaterali, ovvero l’universo affettivo-educativo-culturale-sociale con cui il soggetto si relaziona, universo che contribuisce a modificare potentemente, nel bene, ma più spesso nel male, la diagnosi stessa e che, quindi, va anch'esso preso in carico insieme al soggetto portatore del sintomo.
Da questo punto di vista la diagnosi, qualsiasi sia il disturbo o la difficoltà in cui incappiamo, rischia, più di quanto non si dica, di imprigionare il soggetto, anziché liberarlo.
Purtroppo ci sono ancora troppi terapeuti che ignorano quanto i manuali diagnostici prescindano da una definizione soggettiva delle condizioni che identificano e classificano e che, quando parlano di disturbi, disabilità, patologie, sindromi, lo fanno in merito a una astratta e presunta oggettività storicamente standardizzata, soggetta ad errore, modifica, variazione, non solo nel tempo, ma, soprattutto, nel qui e ora di ogni relazione terapeutica.
Qualsivoglia test, di fatto, non ci mostra altro che una discrepanza tra una anomala deficienza e un'efficienza generalizzata che di epoca in epoca assume un suo aspetto di “normalità”. Il manuale stabilisce quanto deve essere questa discrepanza. Ciò significa che quel che chiamiamo patologia, disturbo, sindrome è solo un costrutto culturale e la diagnosi che li conclama unicamente uno strumento che serve per ragionare sulla realtà, ma che in sé non è né vero né falso (come scrivevamo nel post: “La nostra cura: Curare la metafora").
Per questo alla invalidante etichetta di qualsivoglia diagnosi, il metodo LogoPaideia predilige il concetto di neurodiversità (suggerito da Judy Singer per l’autismo), spostando la riflessione dell’ambito medico all'ambito culturale e rilevando così, non una patologia, una sindrome o quant'altro, ma un vero e proprio stato dell’anima, una differenza che riguarda tutti poiché, in varie misure, siamo tutti neurodiversi, e la fatica di essere accettati e accettare negli altri questa neurodiversità è il triste risultato di una società come la nostra centrata su un unico profilo di normalità.
È importante allora avvalersi del concetto di neurodiversitá, poiché intendiamo con questo la natura di ogni singolo individuo, ponendo qualsiasi sviluppo psicofisico atipico all'interno di una normale differenza individuale che deve essere riconosciuta come ogni altra variazione umana (occhi verdi, marroni, azzurri; destromani e sinistromani; alti e bassi, miopi e astigmatici...etc.) e, soprattutto, deve essere comunicata e spiegata (dispiegata) al soggetto della cura e alla sua famiglia trovando, insieme, i cardini per trasformare ogni condizione ostacolante in una risorsa qualificante.
Come, infatti, bene dice Karl Kraus: “Una delle malattie più diffuse è la diagnosi”, poiché la ricerca o la scoperta della definizione di quello che ho si rivela, spesso, una camicia troppo aderente che trasforma la molteplice pluralità della persona che sono nel ridotto profilo del malessere che mi affligge -e il primo impegno di qualsivoglia terapia deve, invece, essere quello di evitare qualsiasi soverchiante sovrapposizione tra la persona e il suo malessere.
Per questo negli studi di LogoPaideia non si distribuiscono diagnosi, ma si collabora con il soggetto della cura per costruire, insieme, un percorso capace di tenere al centro la persona aiutandola a superare gli ostacoli e le difficoltà, virando dagli stringenti rigagnoli del malessere verso le distese oceaniche del benessere, marosi e tempeste comprese.Massimo Silvano Galli

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Dossier Paperblog