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New York e i paradossi dei sensi

Creato il 29 dicembre 2013 da Astorbresciani
New York e i paradossi dei sensi È difficile raccontare New York con parole inedite. Voglio provarci dopo esserci stato ancora una volta. A mio parere, la Grande Mela non è solo la metropoli planetaria per eccellenza, la caput mundicontemporanea, ma il luogo che normalizza i paradossi dei sensi. Li avete presenti? Nelle neuroscienze si riscontrano diversi paradossi causati dai limiti sensoriali o della mente. L’esempio più noto è quello delle illusioni ottiche. Ma ce ne sono altri. Esistono suoni che sembrano crescere mentre in realtà sono ciclici. Se prendiamo un compasso con due punte e lo puntiamo sul polpastrello, percepiamo due punte distanti pochi millimetri. Ma se lo puntiamo sulla schiena, avremo l’impressione di sentire una punta sola. Ecco un altro esempio: se immergiamo le mani in due bacinelle, una colma di acqua fredda e l’altra calda e dopo qualche minuto le immergiamo entrambe in una bacinella piena di acqua tiepida, avremo sensazioni contrastanti di freddo e caldo. Fate la prova. Allo stesso modo, visitare New York significa vivere esperienze sensoriali che confondono ed esaltano le nostre capacità percettive. La città – “un diavolo di città”, come cantava Frank Sinatra – risucchia ogni forma di vita in una vortiginosa (e vertiginosa) sbornia dei sensi, dove illusioni e paradossi fanno parte della realtà. Per quanto ciò che vedremo e faremo sia meravigliosamente concreto, avremo sempre il dubbio che i nostri sensi siano stati alterati da un fattore X impalpabile. Avvertiremo un’euforia e insieme una sorta di capogiro che imputeremo al jet lag, non riconoscendo d’essere sotto l’effetto della locale perturbazione sensoriale. Un semplice esperimento lo conferma: fermatevi nel mezzo di Times Square, nell’ora di punta. Tappatevi le orecchie e chiudete gli occhi per qualche secondo. Poi riapritevi alla realtà. Sarete scossi violentemente come in uno shaker.Si dice che George Gershwin e Woody Allen siano i personaggi che meglio rappresentano New York, la sua unicità, la sua essenza. In effetti, le melodie del compositore statunitense che ha fondato il musical americano, sono le colonne sonore ideali di questa città trasversale, sofisticata, parossistica, elettrizzante. Nello stesso modo, l’humor cerebrale di Woody Allen esprime perfettamente l’animus e la forma mentis degli abitanti di New York, che sono diversi dai comuni mortali, tant’è che si considerano semidei. La loro peculiarità, infatti, è pensare in grande o come si dice oggi “out of the box”. Come dare loro torto? La famosissima e ineguagliabile skyline di Manhattan non è solo il monumento ineguagliabile dei tempi moderni, è l’espressione di questa capacità straordinaria di uscire dagli schemi e di farlo con determinazione unica. Basti pensare che i grattacieli di New York non sono stati costruiti con fondi pubblici né con finalità pubbliche. Sono il frutto dell’iniziativa privata, dell’energia di individui che hanno ritenuto possibile l’impossibile. Alla fine del 2012 erano 5.818! A proposito di grattacieli, il grande architetto Le Corbusier definì New York “la città verticale”, considerandola “una bella e apprezzabile catastrofe”. In effetti, si cammina per Manhattan con il naso all’insù e ciò comporta il rischio per lo meno di una catastrofe personale. Non è tanto il rischio d’essere travolti da un’auto quando quello di slogarsi un piede a minare il pedestrian, giacché i marciapiedi sono alti e infidi. Ovviamente, il mondo migliore per godersi questa città in piedi è salire sul mitico Empire State Building (381 m.) e abbracciare con lo sguardo un panorama che è ugualmente seducente di giorno e di notte. L’alternativa oggi di gran moda è ascendere all’osservatorio Top of the Rock, la vetta del Rockefeller Center. Il General Electric Building (259 m.) è più basso dell’Empire ma il suo panorama lo comprende. Resta escluso solo un altro gigante dai tratti inconfondibili: il Chrysler Building (319 m.), il più bel skyscraper di New York.
Sempre in tema di grattacieli, è finalmente finita la costruzione del più alto, l’Old World Trade Center, noto come “Freedom Tower”. Raggiunge i 1776 piedi di altezza (541 m.) e questo numero non è casuale; corrisponde all’anno della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Non è casuale nemmeno il punto in cui è stato eretto a Lower Manhattan. Si trova nel New World Trade Center e ha preso il posto delle Twin Towers crollate dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. La Torre della Libertà, inaugurata il 23/11/2013, è impressionante ma confesso che è ancora più impressionante il 9/11 Memorial, che sorge dove svettavano le torri gemelle ed è dedicato alle quasi 3.000 vittime di quell’orribile strage. Visitando il memoriale, costituito da un parco dominato da due immense fontane quadrate, è impossibile non avvertire una forte emozione, unita a un senso di pietà e di pace che esalta la spiritualità del luogo. Sembra impossibile che appena usciti da un’enclave quasi mistica, risparmiata dai rumori assordanti di una città che non dorme mai, come cantava Liza Minelli, il mondo continui. Ma è questa la forza propellente di New York e dei suoi abitanti, capaci di risorgere malgrado le avversità e migliorare. E se dovessi scegliere il newyorker ideale, il più meritevole ed eroico, non avrei dubbi. È quello che indossa l’uniforme del NYFDP. Furono 341 i vigili del fuoco di NY (+ 2 paramedici) che morirono mentre prestavano soccorso l’11 settembre. Sono loro il monumento vivente di una città che non di dà mai per vinta.
Avvengono tanti miracoli a Manhattan, ma uno di essi non ha soluzione di continuità. Mi riferisco a Central Park, un immenso santuario verde di 843 acri (340 ettari) che costituisce il polmone della città. E che polmone! Attraversarlo e perdersi fra le montagnole, i boschetti, i prati e i laghi che ne fanno parte, è un’avventura cui non si può rinunciare. Vi si coglie lo stesso respiro panico della “Pastorale” di Beethoven, un afflato che concilia la quiete della natura con la frenesia urbana che cinge il perimetro del parco. Sono tanti gli spunti di riflessione che il visitatore può ricavare (sia che circoli a piedi, su una carrozza trainata da un cavallo o su un risciò). Ne propongo due. Vorresti portarti a casa uno scoiattolo di Central Park. Sono quasi domestici, quasi umani. Ti aspetti da un momento all’altro che ti rivolgano la parola. Che li abbia creati Walt Disney? La seconda riflessione è culturale. Non puoi muoverti senza riconoscere un luogo o un palazzone dei tanti che si affacciano ai limiti del parco che non evochi un film famoso. Central Park è uno splendido set cinematografico e basta socchiudere gli occhi per immaginarsi protagonisti di scene filmiche passate alla storia. Basta scegliere: Il Maratoneta, Colazione da Tiffany, Harry ti presento Sally, Love Story, ecc.
Ma come, scrivi di New York senza parlare della Statua della Libertà e di Ellis Island, della Fifth Avenue, del Metropolitan Museum, di Broadway con i suoi teatri, del ponte di Brooklyn? Ne parlerai con piacere ma è già stato scritto di tutto e di più. Mi limito, invece, a ricordare il quartiere di Harlem. L’ho rivisitato dopo la bonifica e non l’ho riconosciuto. I palazzi sono stati ristrutturati e le vie sono pulite. La Harlem afroamericana, malfamata e decadente, non esiste più. Il rinascimento che ha avuto inizio a partire dalla metà degli anni Novanta del XX secolo ha riqualificato la sua parte sud, migliorando la vita dei suoi abitanti. Non ho incontrato nelle strade bande di criminali né i rapper neri di strada con le immense radio sulla spalla onnipresenti nei telefilm polizieschi degli anni Settanta e Ottanta. Tuttavia, Harlem conserva i suoi miti: il jazz e il gospel.  Si può fare anche questo, in una città che esaspera i paradossi dei sensi: immergersi nell’atmosfera dei Blues Brothers in una piccola, anonima chiesetta battista, o evocare i fantasmi del proibizionismo al Cotton Club o quello di Ella Fitzgerald all’Apollo Theater. New York sa come inebriare i sensi.

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