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Nihil traducendum… Quali sono i romanzi che ci fanno ridere?

Creato il 07 marzo 2014 da Tiziana Zita @Cletterarie

auntie-mameZia Mame


Dunque, dov’ero rimasta? Ah, sì, il secondo libro che mi ha fatto ridere fino alle lacrime.
È Zia Mame, di Patrick Dennis, un libro che ogni aspirante scrittore dovrebbe leggere se non altro perché ha una storia editoriale piena di speranza (non mi fate divagare troppo: chi non la conosce, la troverà su Wikipedia). L’ho letto qualche anno fa, quando Adelphi pensò bene di ristamparlo, e ancora non ho capito se mi ha divertita tanto perché mi ha ricordato il film (un gioiellino che avevo visto da ragazza, con una strepitosa Rosalind Russell che ci guadagnò persino una nomination agli Oscar – il titolo in italiano è La signora mia zia); o perché è tradotto benissimo, con quell’italiano pieno di termini eleganti, ricercati, un po’ desueti ma sempre efficaci che a me piacciono un mondo; o infine perché mi ha fatto tornare in mente la mia, di zia, molto meno svagata di zia Mame ma altrettanto spassosa, che mi aveva lasciata da poco (a proposito: qualcuno mi sa dire perché gli attori che sono belli da bambini non riescono a invecchiare come Dio comanda? Il piccolo che fa la parte di Patrick nel film è diventato un uomo assai bruttarello, un po’ come il Macaulay Culkin di Mamma, ho perso l’aereo. Le femminucce ci stanno più attente, Shirley Temple docet).

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Chiudo qui il discorso su Zia Mame perché, come dicevo l’altra volta, quello che fa ridere me magari lascia indifferente qualcun altro, e non mi sembra manco il caso di star qui a dilungarmi su un libercolo il cui unico pregio è quello di far ridere. Ma è un libro che mi fornisce l’occasione di affrontare un tema che mi sta a cuore: quello della traduzione.

E comincerò proprio col dire che il libro di Dennis fu un autentico trionfo negli Stati Uniti, mentre in Italia fu un flop – ci sono voluti più di cinquant’anni, e tre ristampe a cura di altrettante case editrici, perché da noi avesse il successo che comunque meritava. Vi siete chiesti il perché?
Io sì, e mi sono anche data la risposta: perché quel tipo di umorismo alla fine degli anni Cinquanta poteva andar bene negli USA, ma non in Italia – siamo giusti: in quel periodo da noi la televisione muoveva i primi passi e c’era il secondo governo Segni: andatevi a vedere la composizione (a) del palinsesto e (b) del governo, e poi ditemi se potevamo apprezzare quel tipo di umorismo. Mezzo secolo dopo, grazie anche a un processo di globalizzazione già rodato da tempo, siamo stati in grado di farlo. Ma il discorso è più ampio.

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Così come, a livello micro, ognuno di noi possiede un proprio personale senso dell’umorismo, a livello macro anche un popolo ha il suo. Il famoso humor inglese, ad esempio, si basa principalmente sull’understatement e sulla litote, quello italiano sull’enfasi. I francesi ridono della gestualità, i tedeschi della solennità – chi è estraneo alla cultura francese difficilmente riderà con Coluche, così come una scarsa conoscenza di quella inglese non potrà far apprezzare, butto lì un nome, un Charles Chilton (la cui infanzia tribolata, peraltro, tutto avrebbe dovuto fare fuorché spingerlo verso il genere comico).
Sarei curiosa di leggere Zia Mame in inglese per vedere se mi fa lo stesso effetto che mi ha fatto la traduzione italiana, ma sono ancora troppo in qua con gli anni per dedicarmi alla rilettura ignorando le nuove produzioni. Il problema principale, secondo me, è che bisognerebbe sempre, nei limiti del possibile, leggere un autore (o, se è per questo, vedere un film o una pièce teatrale) in originale: una lingua è traducibile a spanne, c’è tutto un mondo dietro un’espressione, e non è detto che quell’espressione trasposta in un’altra cultura susciti le stesse emozioni.
È un discorso complesso, che andrebbe affrontato più in profondità di quanto consenta lo spazio gentilmente messoci a disposizione da Tiziana, sicché cercherò di spiegarmi con qualche esempio.

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L’anno scorso mia nipote mi regala La vita davanti a sé, di Romain Gary, dicendomi che le era piaciuto molto. Senza dirle che anni prima avevo letto la versione originale, perché mia nipote è orgogliosa di mettermi a parte delle sue scoperte letterarie, comincio a rileggerlo. A distanza di tanto tempo ricordavo le vicende per grandi linee, ma rileggendole provavo una strana sensazione: da un lato mi tornavano in mente alcuni particolari della trama, dall’altro avevo la netta sensazione di aver letto una storia completamente diversa. Per farla breve, metto a confronto le due versioni, e scopro che il traduttore italiano ha fatto un lavoro eccellente: una lingua elegante, un’accurata scelta di avverbi e aggettivi, una sintassi raffinata – un bell’italiano, insomma. Peccato che Gary aveva scritto quel libro a volo radente, con l’ottica di un bambino d’una decina d’anni che è poi l’io narrante, mentre il traduttore ha volato alto, scrivendo come un bambino non scriverebbe mai. Ha detto quel che ha detto l’autore, ma – per dirla con la Tosca pucciniana – l’ha detto male.

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Stessa sensazione con Pennac. Mi ero letta la trilogia in italiano e mi era piaciuta, niente di più. Tempo dopo me la regalano in francese: non pensavo di rileggerla, ma tornando da Parigi ero rimasta senza niente da leggere, e in aereo comincio a sfogliare il primo libro, Au bonheur des ogres (Il paradiso degli orchi). Spesso mi è capitato di scoppiare a ridere, cosa che con l’italiano non mi era successa, e non per imperizia della traduttrice ma perché ci sono cose – tanto per riallacciarmi a ciò che dicevo prima – che se dette in francese mi fanno ridere, mentre in italiano mi lasciano impassibile (il più grande regalo che mi ha fatto la zia di cui parlavo in apertura è una seconda lingua materna: ecco perché ho la fortuna di apprezzare certi originali).
A proposito di Pennac: sarei curiosa di sapere perché il suo ultimo lavoro è stato tradotto Storia di un corpo, quando il titolo originale era Journal d’un corps: non so se un’Anna Frank o un Jean Genet sarebbero stati contenti di vedere i loro “diari” sminuiti a livello di semplici “storie”. Diceva Eduardo: la parola c’è, perché non usarla?
Bisognerebbe sempre rispettare le intenzioni di chi scrive. Tanto per polemizzare: se io sono di madrelingua francese e voglio dire “lettuccio”, dirò “petit lit”; se voglio dire “finestrella”, dirò “petite fenêtre”, perché la lingua francese non usa le desinenze come l’italiano per i diminutivi. E allora, porca paletta, se io mi chiamassi Antoine de Saint-Exupéry e scrivessi un libro intitolato Le petit prince, perché diavolo non dovrei vederlo tradotto in italiano con Il principino, com’era nelle mie intenzioni?

Antonio Rotari, Ragazza con un libro
In conclusione, la mia proposta è la seguente: case editrici di tutto il mondo, quando pubblicate la traduzione di un saggio, di un romanzo, di un’opera teatrale, di una poesia (soprattutto di una poesia), prendete la buona abitudine di pubblicare la versione originale col testo a fronte. Chi conosce bene la lingua potrà apprezzare in pieno le intenzioni dell’autore o autrice che sia, chi la conosce un pochino avrà l’opportunità di migliorarla, chi non la conosce affatto potrebbe avere un incentivo in più per mettersi a studiarla o, male che vada, per macinare un sacco di pagine più in fretta ignorando completamente la parte sinistra del volume.

P.S.L’invito riguarda solo gli autori più importanti e le lingue più diffuse: immagino che pubblicare tutto il pubblicabile in quel modo farebbe lievitare enormemente i costi di produzione, con un impatto rovinoso sui prezzi di copertina. Senza contare il fatto che stampare Достоевский o 三島由紀夫 in versione originale e tradotta potrebbe perplimere la quasi totalità dei lettori più maniacali (ai quali mi rattristo di appartenere) e ridurre drasticamente il già esiguo spazio a disposizione sui loro scaffali.


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