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No agli allevamenti intensivi: benessere animale e non solo

Creato il 23 novembre 2015 da Informasalus @informasalus

allevamenti intensivi
Gli allevamenti intensivi impongono l’uso smodato di antibiotici che potrebbero incentivare i super-batteri. Cambiare strada è anche un’esigenza sanitaria

Si teme «un ritorno agli anni bui della medicina». Durissimo il commento del premier inglese David Cameron sul rapporto del Dipartimento per le emergenze nazionali sui batteri resistenti agli antibiotici. Le cifre lasciano poco spazio all’ottimismo. Oltremanica un’epidemia di infezioni da super- batteri potrebbe produrre 200mila contagi e 80mila decessi. Negli Usa, stando ai Centers for Disease Control and Prevention, si aggirano su due milioni di infezioni e 23mila decessi l’anno.
I motivi son presto detti: usiamo troppi antibiotici. In medicina, veterinaria, zootecnia, agricoltura. Così i batteri mutano.
In Europa dal 2006 non si possono usare antibiotici per stimolare la crescita di pollo, manzo o maiale. Ma si somministrano al primo segno di infezione, per evitare contagi nei sovraffollati allevamenti industriali. Su 250 petti di pollo italiani analizzati da Altroconsumo, 195 contenevano super-batteri. Di fronte alla bufera mediatica, anche McDonald’s Usa ha promesso di affidarsi solo a fornitori che si limitano agli ionofori (non usati per l’uomo).
ALLEVAMENTI-MONSTRE
Il dito è puntato contro allevamenti intensivi come La ferme des mille vaches, la mega-stalla con mille mucche e un impianto da biogas da 1,3 MW costruita a Drucat, nella Somme. Per non parlare di quelli dei broilers, i polli più diffusi . Per soddisfare la domanda sempre più vorace – raccontavamo su Valori di aprile – non bastano più polli “normali” (il loro peso medio è quintuplicato in cinquant’anni) né allevamenti “normali” (in Cina nel 1998 le aziende con meno di 2mila capi coprivano il 62% della produzione, oggi il 30%). Lo scenario- tipo è quello di capannoni lunghi 100 metri e larghi almeno 12, con una densità minima di 15 animali per metro quadro.
Non va meglio ai maiali, spiega l’Economist. In una Cina che ne produce e consuma 500 milioni l’anno, le fattorie con meno di cinque capi, che negli anni Ottanta coprivano il 95% della produzione, hanno ceduto il passo ai mega-siti industriali che sfornano 100mila suini l’anno, facendoli vivere su letti di metallo.
E I NOSTRI ALLEVATORI?
Così, come la bottega abbassa le serrande di fronte ai megastore, i piccoli allevatori accusano il colpo. Coldiretti svela che in Italia con la crisi ha chiuso una stalla su cinque, perdendo 32mila posti di lavoro. Dal 1° aprile, inoltre, le quote latte sono in pensione. «I produttori lituani, polacchi, irlandesi, olandesi possono quindi raddoppiare la produzione dall’oggi al domani.
E noi, con una produzione casearia unica al mondo, fermi a guardare», denuncia Giorgio Apostoli, responsabile Zootecnia di Coldiretti. Se i 20mila piccoli allevamenti nelle zone montane e isolate soffrono, ci perdiamo tutti. In termini di occupazione, biodiversità («Pensiamo alla cinta senese, al nero di Caserta o dei Nebrodi, alla vacca frisona o bianca nera»), tutela del territorio: «Il calpestio di una vacca marchigiana o chianina preserva il suolo da erosioni e smottamenti».
Che fare? «Nel libero mercato non si possono limitare le importazioni. Ma il consumatore dev’essere informato», dichiara Apostoli. Che ipotizza un’“etichetta di eticità”: «Chi vuole comprare carne o latte da un mega-allevamento estero è libero di farlo. Ma è libero anche di sapere se ciò che mangia è etico».


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