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Nomade per la fisica

Creato il 20 luglio 2010 da Stukhtra

Un giovane fenomenologo ticinese in giro per il mondo

di Marco Cagnotti

Clerici vagantes, li chiamavano nel Medioevo: studenti in migrazione da un’università all’altra alla ricerca del professore più famoso, del maestro più autorevole, delle opere più rare e preziose. Nomadi della conoscenza. Finita quell’epoca remota, è poi invalsa l’abitudine di restare legati a un’unica sede universitaria, sia per lo studio sia per la carriera accademica. A partire dal secondo Dopoguerra, i giovani studiosi sembrano tuttavia costretti a riprendere quell’antica abitudine: ti diplomi qui, il dottorato lo fai là, il post doc altrove… Poi ti sposti ancora e ancora di sede in sede, cercando nuove borse: un paio d’anni in Danimarca, tre in Giappone, ancora due negli Stati Uniti… Stimolante, ma alla lunga fiaccante. Perché lascia in sospeso affetti e legami. E anche perché impedisce di programmare la propria vita con un minimo di sicurezza: una famiglia, dei figli, l’acquisto di una casa…

Ne abbiamo parlato con un giovane fisico ticinese, fresco di dottorato: Gionata Luisoni. Che si trova proprio in mezzo al guado.

Nomade per la fisica

Feynman ne sarebbe orgoglioso...

Gionata: data e luogo di nascita.

Locarno, 2 settembre 1983.

Scuole?

Elementari e Medie a Losone, Liceo a Locarno, università al Politecnico Federale di Zurigo, dottorato sempre a Zurigo ma all’Università.

Partiamo da lontano: alle Medie e al Liceo eri un secchione o un fancazzista?

I miei ex compagni ti potrebbero rispondere: “Un secchione”. A me sembrava di fare il necessario per andare bene a scuola.

E andavi bene?

Abbastanza.

Abbastanza… quanto?

Nessun voto sotto il 5 (8 nella valutazione italiana, NdR).

Miii… un secchione!

Io non mi sentivo un secchione. Guarda che non mi sembrava di studiare più di tanto. Alle Medie stavo attento a lezione e facevo i compiti. Non passavo ore e ore sui libri. Al Liceo all’inizio ho sentito il cambiamento di ritmo e mi sembrava di subire un carico di lavoro enorme. Poi però, con il passare degli anni, sono tornato ad avere un sacco di tempo libero.

E poi hai scelto fisica per l’università. Perché?

Al Liceo avevo scelto come opzione specifica FAM (Fisica e Applicazioni della Matematica, NdR), quindi è chiaro che avevo già una passione per quelle materie. D’altronde l’interesse per la scienza e la tecnologia c’era già alle Medie. Certo non per la fisica: a quell’epoca ero troppo piccolo anche solo per sapere che cosa fosse, e semmai la confondevo con l’educazione fisica. La fisica, quella vera, l’ho incontrata solo al Liceo. Poi ricordo che, quando s’è trattato di decidere, ero indeciso fra fisica e ingegneria meccanica. Probabilmente il mio professore di fisica del Liceo e la sua contagiosa passione per la materia sono stati importanti nel far pendere l’ago della bilancia verso la fisica, che ho scelto perché m’interessava capire i fondamenti delle cose.

Quindi sei arrivato al Poli.

Un shock, il primo anno. Per i miei canoni, per quello che mi sarebbe piaciuto fare per seguire le lezioni e capire bene, ero sommerso dalle cose da fare. Ero abituato al Liceo, dove uscivo dalle lezioni avendo capito più o meno tutto. Al Poli invece avevo capito solo poche parole. Molto frustrante.

E quindi…?

…quindi sì, in effetti al Poli ero un po’ un secchione.

C’era anche un problema di lingua?

Per la verità no, per due ragioni. Anzitutto i miei genitori sono ticinesi, però hanno vissuto per parecchi anni in Svizzera Tedesca e mi hanno parlato in schwyzerdütsch. Così mi è rimasto nell’orecchio. D’altronde la fisica e la matematica non sono come le discipline umanistiche, nelle quali il tedesco è davvero difficile. Nella scienza, una volta che hai assimilato il gergo settoriale, poi non hai più grossi problemi.

Quindi dov’era la difficoltà?

Nelle materie. Ci piovevano addosso moltissime conoscenze nuove. Se si voleva capirle fino in fondo bisognava impegnarsi e investire tempo nel ripetere i calcoli da soli e svolgere i problemi, con i quali peraltro ci sommergevano. Non bastava studiare a memoria. Due settimane senza studiare, ed eri tagliato fuori.

Sicché il Poli ti è costato parecchi sacrifici.

Onestamente non me ne viene in mente uno che mi sia costato davvero tanto. Studiavo dalla mattina alla sera, semmai con qualche pausa per le chiacchiere con il mio coinquilino. Ma non sono mai stato un tipo a cui piacesse sbracare alle feste, perciò… no, da quel punto di vista i sacrifici non sono stati particolari. Tuttavia dover passare anche parte dei weekend con i libri anziché con la fidanzata, la famiglia o gli amici a volte richiedeva molta forza di volontà.

Dopo il diploma, il dottorato.

Sì, e lì il ritmo è un po’ calato, in effetti. D’altronde a quel punto ormai la mia ragazza, ticinese anche lei, mi aveva raggiunto a Zurigo. E, volente o nolente, ho dovuto staccarmi un po’ dai libri.

Il potere del fascino femminile. Viene da dire: “Meno male!”. E adesso?

Adesso… quando?

Adesso adesso, a breve termine.

Beh, rimango a Zurigo per tutta l’estate. Poi il 1. ottobre parto e vado all’Università di Durham , in Inghilterra. Starò lì come ricercatore post doc per due anni.

A fare cosa?

Le stesse cose che ho fatto finora: mi occuperò di cromodinamica quantistica.

Cromo… che?

Cromodinamica quantistica. E’ la teoria che spiega l’interazione forte, cioè una delle quattro forze fondamentali della natura. In particolare, la forza forte agisce fra i quark e i gluoni, che si trovano all’interno dei protoni e dei neutroni, che si trovano nei nuclei degli atomi. Su queste cose ho già pubblicato quattro articoli.

E tu sei un fisico teorico di questa roba?

Io sono un fenomenologo.

Cioè?

Cioè una via di mezzo fra un teorico e uno sperimentale. Sulla base delle teorie, io calcolo le previsioni su ciò che è stato o che sarà osservato negli esperimenti, per esempio al CERN negli scontri fra fasci di particelle elementari.

E ti piace?

Sì, mi piace. I teorici puri trascorrono molto tempo a calcolare cose che non si possono davvero misurare. Mi sembrano troppo lontani dalla realtà sperimentale. Io invece uso sì tanta matematica, la stessa sviluppata dai teorici nei loro modelli, ma poi la applico alle previsioni su misure che in effetti si possono verificare, controllare. Insomma, sento il contatto con qualcosa di concreto.

Però non vai in laboratorio a fare lo spelafili…

No, il mio tempo di lavoro lo trascorro in ufficio. Però… beh, qualche volta mi piacerebbe poter mettere le mani un po’ di più anche sull’hardware.

E, in pratica, che cosa fai?

I miei studi si applicano alle misure effettuate presso il Large Electron-Positron collider (LEP), il vecchio acceleratore del CERN, e l’Hadron-Electron Ring Accelerator (HERA), ad Amburgo, che è stato smantellato tre anni fa. Questi calcoli non portano a nuove scoperte, ma permettono un’analisi più precisa dei dati già raccolti. Inoltre sono un banco di prova per calcoli simili ma più complessi che saranno necessari per l’attuale Large Hadron Collider (LHC) del CERN.

Ora quindi ti aspetta Durham, dove…

…dove farò, presumo, in linea di massima le stesse cose che ho fatto finora. Ancora non ho parlato approfonditamente con il mio prof inglese, però penso che mi coinvolgeranno in qualche loro progetto, magari in comune con l’Università di Zurigo.

Zurigo, Durham… Sei sempre in viaggio.

Sì, ho girato parecchio in questi anni. Un po’ per seguire le Summer School di fisica, in Germania e in Italia. E un po’ perché mi hanno chiamato o spedito a tenere conferenze. Ho avuto la fortuna di svolgere parte della mia ricerca di dottorato su un argomento che era un po’ la ciliegina sulla torta di un immenso lavoro svolto in precedenza dal mio prof. E quindi in un paio di occasioni lui mi ha mandato a presentare la ricerca al suo posto. Altre volte sono andato perché nessun altro, nella nostra collaborazione, poteva farlo. Altre ancora sono stato chiamato. Così sono stato a Londra, a Perugia, a Firenze, a Ginevra al CERN e all’Università, a Philadephia e a Chicago negli Stati Uniti.

Molto stimolante, sembra. Lo rifaresti?

Che cosa?

Tutto: la fisica, il Poli, il dottorato…

Sì, credo proprio di sì. Fin dalle Medie a lezione di scienze sentivo parlare delle particelle. Nonostante fossero sotto il “cappello” della chimica…

Mi piace quel “nonostante” associato a “chimica”: una considerazione da vero fisico.

…mi interessavano moltissimo. Beh, adesso credo di avere una vaga idea di che cos’è il Modello Standard delle particelle. Quindi la mia curiosità è stata appagata. Se rimarrò nel mondo della ricerca e contribuirò ulteriormente alla ricerca in fisica nei prossimi anni, quando tutti si aspettano una svolta rivoluzionaria… bene. Altrimenti anche qualche altra nuova sfida sarebbe interessante. Perché no?

Supponiamo che io sia un liceale alla vigilia degli esami di maturità. Mi consiglieresti di studiare fisica?

Te lo consiglierei se tu fossi davvero curioso di capire la natura. E se tu avessi sul serio la voglia di metterti sui libri e cercare di capire e di provare per conto tuo a usare la matematica per far funzionare la teoria. Ma, se tu non fossi così, penso che nemmeno ti verrebbe l’idea di fare il primo passo in questa direzione, no?

In questi anni di studio la tua vita privata ha sofferto? Hai degli hobby, per esempio? E sei riuscito a coltivarli?

Al Poli è stata un po’ più dura. Poi, col dottorato, la situazione è migliorata. Io ho due grandi passioni: l’aviazione e la montagna. Ora riesco a volare perché sono assistente di volo sugli elicotteri, nell’esercito. E comunque qualche scalata durante l’estate sono sempre riuscito a concedermela.

E la tua ragazza? Quali difficoltà nel conciliare una relazione con la fisica?

Anika e io stiamo insieme da quando ho iniziato il Poli. Poi, col dottorato, lei mi ha raggiunto a Zurigo. E adesso, fra qualche mese, mi seguirà a Durham.

Sei fortunato: Anika sembra una persona molto flessibile. Pensa se ti avesse detto: “Guarda, io voglio vivere solo ad Airolo!”.

Sì, certo. Però ora, con l’Inghilterra, quando si è trattato di prendere una decisione difficile e impegnativa come scegliere se e dove fare il post doc, io ho voluto che fosse presa insieme. Io la vedo come una relazione a lungo termine, quindi la mia carriera professionale non viene prima della mia vita affettiva.

Nomade per la fisica

Per ora, una vacanza a Firenze. Fra qualche mese, Durham. A lavorare.

E poi? Sul lungo termine che cosa ti aspetti… o temi… o speri?

Sul lungo termine… dovrò decidere che cosa fare da grande. Ho due possibilità. Potrei andare avanti con incarichi post doc in giro per il mondo, fino a quando riuscirò a convincere qualcuno a tenermi per una posizione fissa. Oppure potrei lasciare la ricerca e riciclarmi nell’industria o magari nell’insegnamento. Ho deciso di proseguire con la prima opzione a Durham perché, mi hanno detto, sono un neodottorato ancora giovane, e comunque un’esperienza all’estero è sempre ben vista anche nell’industria. Però dopo dovrò prendere una decisione. Di fatto, la carriera accademica comporta continui spostamenti e sradicamenti, per molti anni. Io vorrei tornare in Svizzera. Se potessi farlo come ricercatore, andrebbe benissimo. Altrimenti… non escludo di fare altro.

Scegli: lo scienziato in Nuova Zelanda oppure l’ingegnere in un’industria svizzera.

Per scegliere devo aggiungere un ulteriore tassello: gli affetti e la famiglia. Sia io sia la mia ragazza sul lungo termine preferiremmo rientrare in Svizzera. Quindi… beh, penso l’ingegnere in Svizzera.

D’altronde, però, se tu scegliessi la ricerca scientifica saresti costretto a molti anni di nomadismo. Ti sembra giusto?

Se penso a tutti i casini burocratici e alla seccatura del trasloco, ti dico di no, sicuramente no. E comunque io sono fortunato, perché in Inghilterra rimango nello spazio di Schengen. Fossi andato negli Stati Uniti sarebbe stato molto peggio. E anche per il trasloco… non porto molto con me. D’altronde ho i miei libri, i miei appunti… insomma sì, è una seccatura, un immenso spreco di tempo e di soldi. Peraltro l’ambiente della ricerca è internazionale. E’ così fin dall’inizio del Novecento, con un ulteriore aumento dopo la Seconda Guerra Mondiale. Non si può fare a meno di trascorrere qualche anno all’estero. Anzi, lo trovo giusto. Però, quando viene il momento di stabilirsi, è anche bello tornare a casa.

Solo che stabilirsi è difficile. E farlo vicino a casa lo è ancora di più.

L’incognita è il tempo: per quanto andrai avanti a fare la pallina da flipper, da un post doc all’altro? Molti giovani scienziati sono lì, in bilico sulla scelta: continuo nell’incertezza sperando che dopo cinque o sei anni mi capiti l’occasione di una posizione fissa, ma sapendo che se aspetto troppo poi divento troppo vecchio per riciclarmi altrove, oppure cambio mestiere, faccio altro, spendo le mie competenze fuori dalla ricerca scientifica per avere sicurezza e stabilità, ma rinunciando alla passione per la scienza? E’ un dilemma che si ripropone dopo ogni esperienza di post doc, ma a lungo termine diventa sempre più doloroso.


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