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Non serve una concezione politica, serve l’arte

Da Marcofre

Per il momento non ho ancora una concezione politica, religiosa e filosofica; ogni mese cambio, e quindi dovrò limitarmi a descrivere come i miei protagonisti parlano, amano, si sposano, si riproducono e muoiono.

 

Questo scrive il buon Anton Čechov.

Sei preoccupato per quello che gli altri “pensano” a proposito di quello che scrivi? Perché non “illumini”? L’unica tua preoccupazione dovrebbe essere per la parola, e basta. Che deve essere efficace e di valore (arte, come diceva zia Flannery O’Connor).

L’idea che si debba avere una forte idea è riduttiva. Dostoevskij solo dopo alcuni anni mostrò la sua concezione politica e religiosa (che non era nemmeno immune da contraddizioni, o razzismo).

L’aspetto divertente è che ormai raccontare storie sembra noioso; e allora occorre dimostrare. E per dimostrare, è indispensabile una concezione politica (quella religiosa non è più di moda; la si perdona a Dostoevskij perché è morto, mentre la filosofia… È così noiosa).

Raccontare storie è comunicare, e questo concetto sembra farsi strada con scarso successo nella testa delle persone. L’obiezione più comune è quella che dice: “È impossibile che non ci sia almeno un’idea. Come fai a scrivere se non hai un’idea?”. E a questo punto ci si ritira soddisfatti perché si sono rimesse a posto le cose.

 

Una storia che abbia un poco di ambizione ha sempre un’idea che la dirige, ma non è quella che pensi tu. Ed è: dare del tu all’arte. Basta, non è necessario nient’altro. Ed è per questa ragione che si legge Tolstoj o Dostoevskij. Non perché hanno creato una concezione politica o filosofica coerente e convincente (anzi…). Bensì perché erano e sono artisti.

 


 

Prima la storia, poi il lettore


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